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05/10/2011 - INTERVENTO DEL PROCURATORE GENERALE ETTORE ANGIONI SULLA NORMATIVA IN MATERIA DI STUPEFACENTI, TENUTOSI PRESSO LA FACOLTA’ DI GIURISPRUDENZA DI CAGLIARI IL 19 MARZO 2009
LA NORMATIVA IN MATERIA DI STUPEFACENTI
FRA PRESENTE E PASSATO
L’odierna chiacchierata – non chiamiamola “lezione” – verterà, come sapete, sulla normativa in tema di droga, la maledetta sostanza, che dà piacere ma schiavizza e distrugge e la cui definizione è ritagliata grossolanamente sugli effetti più noti degli oppiacei … Il benessere iniziale, l’assuefazione e quindi la depressione finale …, effetti che gli Americani sogliono efficacemente riassumere con le parole “HIGH – FEELING – DOWN”.
Una definizione, quest’ultima, che – tranne rare eccezioni – ha sostanzialmente trovato concordi tutti gli intellettuali del passato, sol che si pensi che molti celebri letterati del XIX secolo, quali MUSSET, DUMAS, GAUTIER, BAUDELAIRE, tanto per citare i più noti, che con essa … con la droga cioé … avevano avuto a che fare, pur lasciando affiorare dalle loro pagine la sua presenza esaltante, tendono a convincere il lettore, ma ancor prima se stessi, della degradazione cui si va incontro ogniqualvolta si cerchino esperienze che promettono illusorie conquiste.
Proprio BAUDELAIRE, nei suoi “Paradis Artificiels”, separa la parte suggestiva e, per certi aspetti piena di fascino delle sostanze stupefacenti … quella cioè delle visioni … dall’altra che affronta il problema della validità morale del suo uso, rimarcando che le vere dimensioni umane del drogato sono delineate dall’umore e dalle condizioni fisiche del giorno successivo.
Ricordate quell’ “HIGH – FEELING – DOWN” (ESALTAZIONE INIZIALE, ASSUEFAZIONE e quindi CADUTA e PRECIPITAZIONE NEL BUIO), di cui ho parlato in apertura!
Partendo proprio da quest’ultima definizione, vediamo di procedere ad una sommaria analisi di quanto il nostro Legislatore ha fatto fino ad oggi nel tentativo di arginare questo devastante fenomeno, che mina dal profondo la Società e che minaccia paurosamente le generazioni future.
Sotto questo profilo non posso fare a meno di rimarcare il travaglio di una elaborazione normativa, risoltasi nell’arco degli ultimi cinquant’anni nell’emanazione di ben quattro leggi, dopo complessi “iter” contrassegnati da marcate polemiche e dispute dottrinali e giurisprudenziali, nonché da molteplici iniziative a livello di lavori preparatori.
E ciò in quanto, sia in dottrina che in giurisprudenza, sin da tempi lontani si era radicato il contrasto circa la punibilità o meno della detenzione della droga per uso personale … contrasto da cui è derivato – come vedremo – il susseguirsi di una serie di leggi, che han portato nel tempo a sostituire lo stereotipo del drogato delinquente con quello, forse oggi un pò troppo enfatizzato, del drogato malato.
Nel settore che interessa esistono – come è noto – tre tipi di politica legislativa, improntati rispettivamente alla “proibizione totale”, alla “proibizione parziale“ ed alla “legalizzazione” degli stupefacenti.
Ed ora veniamo al nocciolo del discorso!
La Legge 22 Ottobre 1954 n° 41
Il Legislatore Fascista e quello della prima fase del periodo repubblicano, fino alla Legge 22 Ottobre 1954 n° 1041, che rimase in vigore per oltre 20 anni, seguirono un tipo di politica, improntato alla “proibizione totale”, sancendo l’illiceità, non solo del traffico, ma anche della mera detenzione e del semplice uso di qualsivoglia tipo di stupefacente.
Norma cardine di detta legge era l’art. 6, in virtù del quale diveniva sanzionabile penalmente la detenzione di qualsivoglia tipo di sostanza stupefacente, a prescindere dal quantitativo e senza alcuna distinzione fra “droghe pesanti“ e “droghe leggere“, fossero queste destinate allo spaccio o più semplicemente all’uso personale.
La semplice detenzione, anche di una sola dose di “hashish”, finiva per comportare così una pena che in teoria non sarebbe stata inferiore ai tre anni di reclusione!
Si trattava di una legge sicuramente iniqua, perché non teneva conto della diversità di situazioni che si verificano nel settore, trascurava totalmente gli aspetti della prevenzione e del recupero del tossicodipendente e non affrontava le problematiche connesse al traffico degli stupefacenti, specie sul piano internazionale.
La Legge 22 Dicembre 1975 n° 685
Il primo vero intervento organico in materia si ebbe però con la L. 22 Dicembre 1975 n° 685, in virtù della quale si passò ad un regime di “proibizione parziale” e di sostanziale tolleranza per l’uso di dette sostanze; e ciò, grazie all’introduzione del concetto di “modica quantità”, la cui interpretazione veniva pericolosamente demandata ai Giudici di merito … concetto, che costituiva il presupposto per il verificarsi di una delle ipotesi di non punibilità.
Indicata dai più come una delle leggi più complete ed evolute, essa fallì peraltro in pieno il suo obbiettivo, anche perché, pur nel lodevole intento di arginare quel fenomeno devastante, finì per ingenerare nei più il convincimento che il fare uso di droghe, specie se ”leggere”, fosse un fatto, se non trascurabile, certo di scarsa rilevanza e di scarsa pericolosità.
Giovanni Maria FLICK, illustre Giurista, già Ministro della Giustizia e fino a poco tempo fa Giudice anziano della Corte Costituzionale, nella prefazione di un suo saggio del 1979, scrisse profeticamente: “Il dramma della droga è divenuto un dramma di moda e proprio per questo v’è da temere che – passata la moda – rimanga, irrisolto, il dramma …”.
La moda, purtroppo non è passata ed il dramma, lungi dall’essersi risolto, si è negli ultimi anni ancor più ingigantito, grazie anche – debbo dire – alla sottovalutazione del problema, allorquando esso cominciava ad affacciarsi nella nostra Società!
Col passar del tempo si faceva intanto sempre più acceso il dibattito fra “proibizionisti” e “legalizzatori“, anche perché fra questi ultimi vi erano coloro che propugnavano addirittura la completa abolizione dei controlli di natura penale e amministrativa, per cui le droghe di ogni tipo avrebbero potuto essere prodotte e consumate a piacimento da chiunque.
Il D.P.R. 9 Ottobre 1990 n° 309
In un clima siffatto finì però fortunatamente per prevalere la linea opposta e si giunse all’emanazione del primo Testo Unico delle Leggi in materia di stupefacenti, approvato con D.P.R. 9 Ottobre 1990 n° 309.
L’aspetto più eclatante di esso è quello di una evidentissima e drastica inversione di rotta, che portò il Legislatore ad una nuova regolamentazione della delicatissima materia, seguendo la politica della “proibizione totale“.
La strategia adottata prevedeva tutta una serie di disposizioni per rafforzare la lotta al traffico degli stupefacenti, specie a livello internazionale, conferendo ampi poteri di controllo nell’ambito degli spazi doganali agli ufficiali di p.g. della Guardia di Finanza e della polizia giudiziaria in genere e disegnando, in tema di prevenzione educativa, un intervento organico consistente nella realizzazione di programmi di educazione alla salute e di prevenzione delle tossicodipendenze nelle scuola.
L’innovazione, peraltro, più saliente del nuovo impianto legislativo concerneva la riaffermazione del principio, già vigente nella vecchia legge del 1954, della assoluta illiceità, non solo della detenzione, ma anche del semplice uso di qualsivoglia tipo di sostanza stupefacente e la conseguente cancellazione di quel concetto di “modica quantità”, che aveva prestato il fianco a tutte le critiche di cui si è detto.
L’art. 72 di siffatto impianto legislativo recitava testualmente: “E’ vietato l’uso personale di sostanze stupefacenti o psicotrope di cui alle tabelle … E’ altresì vietato qualunque impiego di sostanze stupefacenti o psicotrope non autorizzato secondo le norme del presente testo unico”.
Una norma cardine, quest’ultima, della nuova disciplina, in radicale antitesi con l’art. 80 delle legge del 1975, il quale ammetteva invece la liceità, sia pure sotto il profilo della non punibilità, dell’acquisto e della detenzione di stupefacenti per uso personale, a condizione che ci si trovasse di fronte a quantitativi definiti ”modici”.
Affermato il principio del divieto di fare uso di sostanze stupefacenti e, quindi, della illiceità di qualsivoglia forma di detenzione, si poneva il problema di come sanzionare un divieto siffatto.
Per non scontentare tutti coloro che gridavano allo scandalo, paventando una criminalizzazione del semplice assuntore di droga, si fece ricorso al solito compromesso e si stabilì che per colui che, al fine di farne uso personale, avesse illecitamente acquistato o, comunque, detenuto sostanze di tal fatta in dose non superiore a quella media giornaliera – identificabile nel quantitativo esauribile mediamente nell’arco della giornata – venissero applicate delle mere sanzioni amministrative, quali la sospensione della patente o dei documenti validi per l’espatrio, ad opera del Prefetto.
Il concetto di “modica quantità”, di cui all’art. 80 della legge del 1975 veniva così sostituito con quello, ancor più restrittivo di “dose media giornaliera” appena richiamato, determinato, onde evitare doglianze per la discrezionalità del giudice, con apposito decreto del Ministro della Sanità.
Le condotte caratterizzate dalla destinazione a terzi della sostanza stupefacente avevano rilevanza penale a prescindere dal quantitativo della sostanza (anche se inferiore alla “dose media giornaliera”).
Rilevanza penale avevano altresì le condotte (importazione, acquisto, detenzione), pur non destinate ex se a terzi, qualora il quantitativo fosse stato superiore alla “dose media giornaliera”.
Rilevanza amministrativa avevano, quindi, residualmente, solo le condotte di importazione, acquisto e detenzione, caratterizzate dall’uso personale e da un quantitativo non superiore alla “dose media giornaliera”.
La risposta sanzionatoria amministrativa era diversificata: in prima battuta vi erano le sanzioni applicabili dal Prefetto (art. 75); in seconda battuta erano previste sanzioni, sempre amministrative ma più incisive, di competenza dell’autorità giudiziaria, irrogabili nei confronti dei recidivi e di coloro che avessero trasgredito i provvedimenti prefettizi.
Ne derivava, in sintesi, un sistema sanzionatorio, che presentava l’indubbio vantaggio della certezza applicativa, proprio in quanto basato su di un parametro rigorosamente oggettivo e facilmente accertabile, quale quello della “dose media giornaliera”.
Il referendum del 18/19 Aprile 1993, in virtù del quale si giunse all’abrogazione vuoi dell’articolo 72, che sanciva il divieto dell’uso personale di sostanze stupefacenti o psicotrope, vuoi del concetto giuridico di ”dose media giornaliera”, comportò però un’incertezza nell’applicazione della disciplina sanzionatoria nei casi non caratterizzati obbiettivamente dalla destinazione a terzi della sostanza.
Si fece così sostanzialmente un passo indietro, passando da un sistema, con una impronta, per così dire, “rigida”, scandita – come abbiam visto – dal divieto esplicito di fare uso di sostanze stupefacenti e dalla repressione penale dell’acquisto e della detenzione per uso proprio, con l’eccezione della ipotesi depenalizzata sopra richiamata ad un sistema negativamente accolto in passato, nel quale riacquistavano notevoli spazi la valutazione e l’interpretazione e, quindi, la discrezionalità, degli inquirenti.
In sintesi, il sistema normativo del 1990, dopo gli effetti abrogativi determinati dal “referendum”, aveva fino al Febbraio del 2006 funzionato attraverso l’interpretazione della giurisprudenza, che aveva introdotto il concetto di “elementi sintomatici dello spaccio”, ovvero di quei dati di fatto, la cui esistenza contribuiva a comprovare che la droga fosse detenuta a fine di commercio.
Ovviamente un problema di concreta acquisizione della prova della destinazione a terzi si poteva porre solo per le situazioni non caratterizzate da un accertamento in flagranza dell’attività di spaccio, giacché questo risolveva all’origine ogni problema probatorio e deponeva per la pacifica applicabilità delle sanzioni penali di cui all’art. 73 del D.P.R. n. 309/1990.
Invece, per le condotte in cui mancava la flagranza dello spaccio l’onere posto a carico dell’accusa di dimostrare che la sostanza non era detenuta per uso personale, ma per finalità di spaccio, doveva essere assolto ricercando, nel caso concreto, elementi indiziari o probatori di supporto … i c. d. “elementi sintomatici” cui ho fatto più sopra riferimento.
Al riguardo, il più importante elemento probatorio di cui si poteva disporre era quello “quantitativo”: la presenza di quantitativi esorbitanti di sostanza stupefacente dimostrava esaustivamente, o poteva concorrere a dimostrare”, che questa non era certamente destinata all’uso personale esclusivo del detentore, ma almeno in parte, era destinata anche a terzi.
In presenza di una quantità di sostanza stupefacente non elevata, il referente quantitativo, ovviamente, non poteva essere da solo idoneo a risolvere il problema della prova della destinazione a terzi della sostanza: in tali ipotesi dovevano appunto soccorrere altri elementi indiziari, ricavabili dalle specifiche modalità, oggettive e soggettive, della vicenda.
Così ad esempio, fra i parametri di ordine “soggettivo” i più significativi erano quelli basati sulla “qualità soggettiva del detentore” … tossicodipendente a no … e sul “giudizio di compatibilità fra le condizioni economiche dello stesso e la detenzione della droga”.
Elementi indiziari di natura “oggettiva”, a supporto della destinazione della sostanza a terzi, potevano poi ricavarsi, per esempio, dalle “modalità di custodia” e dal “frazionamento in dosi” della droga, dalle “modalità spazio temporali del sequestro” (Si pensi al soggetto trovato in possesso di dosi di stupefacente in località notoriamente frequentati da spacciatori o davanti alle scuole), dal “ritrovamento di sostanze stupefacenti di diversa natura”, dal “ritrovamento di bilancini di precisione”, di “cartine per il confezionamento delle dosi”, o di “notevoli quantitativi di sostanza da taglio”.
Si trattava di un sistema che presentava però alcune evidenti insufficienze, fra cui in particolare quella determinata dalle indiscutibili difficoltà operative per le forze dell’ordine, le quali nell’immediato dovevano scegliere se coltivare la strada amministrativa, segnalando il caso al Prefetto ovvero quella penale, con la denuncia all’Autorità giudiziaria a piede libero o con arresto in flagranza.
E ciò, in quanto vi erano Giudici che, pur in presenza di ingenti quantitativi di droga, pronunziavano Sentenze assolutorie ed altri che invece emettevano Sentenze di condanna, ipotizzando una detenzione a fine di spaccio.
Legge 21 Aprile 2006 n° 49
Per colmare queste lacune il Legislatore è quindi intervenuto con la legge n° 49 del 21 Febbraio 2006, che ha toccato, principalmente ed incisivamente, la disciplina sanzionatoria, penale e amministrativa … Una legge che, per ovvi motivi di tempo, saremo costretti ad analizzare in maniera sintetica e riassuntiva.
Il sistema è stato ancora una volta costruito, affiancando alle sanzioni penali (art. 73) quelle amministrative (articoli 75 e 75 bis).
Quanto alle prime, si è operato attraverso l’introduzione all’interno della norma dei criteri “indiziari”, e cioè di quegli “elementi sintomatici”, che in precedenza, solo attraverso l’interpretazione giurisprudenziale, venivano utilizzati per dimostrare la destinazione della sostanza ad un uso diverso da quello personale.
Il sistema amministrativo, invece, è stato costruito con l’intenzione, da un lato di rafforzare lo strumento sanzionatorio, nella prospettiva di creare un meccanismo più efficace anche in chiave di recupero del tossicodipendente, per indurlo all’accettazione del programma terapeutico di riabilitazione e recupero e dall’altro di sanzionare efficacemente le condotte oggettivamente o soggettivamente più pericolose per la sicurezza pubblica.
Oggetto di disamina in questa sede saranno solo le sanzioni penali, apparendo del tutto ultroneo e dispersivo rispetto al tema della discussione l’affrontare anche la disciplina delle sanzioni amministrative.
Fino alla riforma del 2006 le sostanze soggette a controllo erano ripartite in sei tabelle: nelle tabelle I e III erano ricompresse le “droghe pesanti”, quelle cioè in grado di produrre effetti sul sistema nervoso centrale e di determinare dipendenza fisica o psichica nell’assuntore, fra cui l’oppio e i suoi derivati, le foglie di coca e i suoi alcaloidi, le amfetamine ad azione eccitante sul sistema nervoso, quali l’ecstasy, il tetraidrocannabinolo e i suoi analoghi, i barbiturici ad alto effetto ipnotico e sedativo.
Nelle tabelle II e IV venivano invece elencate le “droghe leggere”, per le quali i pericoli di induzione di dipendenza fisica e psichica si riteneva fossero di intensità e gravità minori, quali la “cannabis indica” e i suoi derivati (hashish, marijuana etc.).
Nelle tabelle III e VI infine erano stati inseriti dei prodotti usati per finalità terapeutiche, i quali, per il fatto di contenere talune delle sostanze di cui alle precedenti tabelle, potevano dare luogo al pericolo di abuso e alla possibilità di dipendenza e che, comunque, era opportuno sottoporre a controllo da parte dell’Autorità (ansiolitici, antidepressivi, psicostimolanti etc.).
Con la riforma del 2006, con un notevole mutamento di prospettiva, scompare la distinzione fra “droghe pesanti” e “droghe leggere”, con una loro teorica parificazione sotto il profilo sanzionatorio (v. i nuovi artt. 13, 14 e 73 del D.P.R. n. 309/1990), così aderendo alle più recenti ed accreditate conclusioni della scienza tossicologica, secondo cui il principio attivo presente in alcune sostanze stupefacenti è “incomparabilmente” maggiore che in passato: ciò è stato apprezzato soprattutto con riguardo alla cannabis, rispetto alla quale normalmente, a motivo di diversificate modalità di coltivazione, il principio attivo (tetroidrocannabinolo o THC) è passato dallo 0,5/1,5% che caratterizzava i derivati della cannabis negli anni 70/80 a valori attuali pari al 20/25%, con punte anche superiori.
Tutte le sostanze vietate, che non trovano nessun impiego terapeutico e che, quindi, non possono essere prescritte, sono oggi comprese in un’unica tabella …la tabella I …, ove sono collocati indifferentemente l’oppio, le foglie di coca, la cannabis indica e le amfetamine.
In un’altra tabella … la tabella II, suddivisa in cinque diverse sezioni, numerate dalla “A” alla “E”, sono invece inseriti i medicinali regolarmente registrati in Italia contenenti sostanze stupefacenti o psicotrope e che, come tali, avendo proprietà curative, possono diventare oggetto di abuso. Tra queste, in particolare, sono compresi nella Sezione “A” i medicinali impiegati nella c.d. “terapia del dolore” ed altre sostanze che spesso sono impiegate come sostanze di abuso, potendo per l’effetto indurre una dipendenza fisica e psichica sostanzialmente paragonabile a quella delle sostanze vietate di cui alla tabella I. Per questi medicinali è prevista una sostanziale assimilazione alle sostanze vietate di cui alla tabella I, nel senso dell’assoggettabilità a sanzione penale, anziché a mera sanzione amministrativa, anche della mera condotta di detenzione in assenza della prescrizione medica o in quantitativo superiore a quello prescritto (art. 73, comma I bis, lettera “b” del D.P.R. n. 309/1990).
Base di partenza della determinazione dei limiti massimi di principio attivo, superati i quali si configura la presunzione relativa della sussistenza dell’uso non esclusivamente personale della droga, è rappresentata dall’unico dato certo, dal punto di vista scientifico, che è quello della “dose media singola”, intesa come “la quantità di principio attivo per singola assunzione idonea a produrre in un soggetto tollerante e dipendente un effetto stupefacente e psicotropo”.
Per arrivare, però, alla determinazione dei limiti massimi di principio attivo detenibile, il dato quantitativo della “dose media singola” è stato convenzionalmente “moltiplicato, avendo riguardo ad un “moltiplicatore variabile”, calibrato “in relazione alle caratteristiche di ciascuna sostanza … Esemplificando per la cannabis (hashish e marijuana) la dose media singola è stata fissata in mg. 25 e il moltiplicatore variabile in 20, conseguendone una quantità massima detenibile pari a 500 mg., corrispondente ad una ventina di “spinelli”, per un breve periodo – come ricorderete – raddoppiata poi dal decreto “TURCO”; per l’eroina la dose media singola è fissata in mg. 25 e il moltiplicatore in 10, per una quantità massima detenibile pari a mg. 250 (corrispondente a circa 10 assunzioni); per la cocaina la dose media singola è stata fissata in mg. 150 e il moltiplicatore in 5, conseguendone una quantità massima detenibile pari a mg. 750 (corrispondente a circa 5 assunzioni) e così via ….
Per quanto attiene alle “sanzioni penali”, al di là dai casi di flagranza, l’art. 73 indica espressamente come elementi indiziari della destinazione della sostanza al commercio il “quantitativo” (in particolare il superamento dei limiti di principio attivo appena richiamati ed indicati in un apposito decreto ministeriale), le “modalità di presentazione” (es. il frazionamento in dosi commerciali) e le “circostanze dell’azione” (rinvenimento di sostanze da taglio, di bilancini di precisione, di bustine per il confezionamento delle dosi, di contabilità attestante il commercio, e infine la stessa personalità del reo).
Le pene previste per le ipotesi di spaccio variano – a prescindere dal tipo di sostanza, ma tenendo conto dell’inserimento di esse fra quelle vietate di cui alla tabella I e quelle medicinali incluse nella tabella II – da 6 a 22 anni di reclusione e con la multa da € 26.000 ad € 300.000, con ulteriori significativi aumenti nel caso di associazione per delinquere finalizzata all’attività di spaccio, con la possibilità però di una diminuzione della pena stessa dalla metà ai due terzi per chi decida di collaborare con gli inquirenti, onde evitare che l’azione delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori.
Per compensare, peraltro, l’oggettivo aggravamento del trattamento che ne deriva per le “ex droghe leggere”, vi è stata da parte del Legislatore la scelta compensativa, non solo di abbassare i minimi edittali, ma di consentire al Giudice, onde graduare la pena proprio in relazione alla natura ed al tipo della sostanza, di far ricorso alla circostanza attenuante del “fatto di lieve entità”, ricorrendo la quale la pena da applicare sarà quella da uno a sei anni di reclusione, oltre naturalmente alla pena pecuniaria.
E’ previsto, quindi, che il Giudice (v. comma 5 bis dell’art. 73), nell’ipotesi in cui ritenga sussistente il “fatto di lieve entità” nei casi di detenzione a fini di spaccio, possa applicare, con la sentenza di condanna o di applicazione della pena su richiesta delle parti, anziché le pene detentiva e pecuniaria, quella del “lavoro di pubblica utilità” (Art. 54 D.L. n° 274/2000), sempre che vi sia l’esplicita richiesta dell’imputato che risulti essere “persona tossicodipendente” o “assuntore di sostanze stupefacenti o psicotrope”.
Il lavoro di pubblica utilità, che non può essere inferiore a dieci giorni né superiore a sei mesi, consiste in una prestazione non retribuita in favore della collettività, da svolgere presso lo Stato, le regioni, le province, i comuni o presso enti ed organizzazioni di assistenza sociale e di volontariato, nell’ambito della provincia di residenza per non più di sei ore di lavoro settimanale, con modalità e tempi che non pregiudichino le esigenze di lavoro, di studio e di famiglia.
La norma prevede che il beneficio possa essere concesso fino a due volte.
Siamo in presenza di una disposizione volta chiaramente al recupero del trasgressore tossicodipendente o anche solo assuntore di sostanze stupefacenti, al quale si è voluto così evitare l’ingresso nel circuito carcerario.
Per quanto attiene alle condotte caratterizzate “oggettivamente” dalla destinazione a terzi non vi sono quindi novità rispetto al sistema previdente.
Si impone comunque qualche precisazione sono per due condotte ricompresse nel comma I dell’art. 73, ovvero per quelle di coltivazione e di trasporto, che ex se non sono autoevidentemente dimostrative della destinazione illecita, e cioè ad un uso non esclusivamente personale, della droga.
La coltivazione
Quanto alla coltivazione, è da rilevare che trattasi di condotta che, anche dopo la novella del 2006, non è richiamata né nell’art. 73 comma I bis né nell’art. 75, comma I, ma solo nel comma I dell’art. 73.
In buona sostanza il Legislatore ha voluto attribuire scientemente a tale condotta comunque e sempre una rilevanza penale, quale che sia la dimensione della piantagione e quale che sia il quantitativo di principio attivo ricavabile dai fiori, dalle foglie etc. delle piante da stupefacenti.
Lo stesso Legislatore ha finito così per aderire, quindi, all’opinione giurisprudenziale prevalente (v. Cass. Sez. IV, 15 Nov. 2005, D’Ambrosio; id. Sez. IV, 19 Genn. 2006, Colantoni), fatta propria anche dalla Corte Cost. (Sent. 24 Luglio 1995 n. 360), secondo cui la condotta di coltivazione è intrinsecamente più grave rispetto a quella di mera detenzione, perché comunque aumenta il quantitativo di droga circolante, sì da meritare un trattamento sanzionatorio diverso e più grave, nel senso di una rilevanza sempre penale della relativa condotta, con esclusione di qualsivoglia spazio per un intervento sanzionatorio amministrativo ex art. 75 D.P.R. n. 390/1990), pur in presenza di coltivazione di modestissime dimensioni, rispetto alle quali sarebbe inconcepibile una destinazione al mercato del ricavato.
Un indirizzo, questo, ribadito ancora una volta in una recentissima Sentenza del Supremo Collegio (Sez. VI, 15 Febbr. 2007, Casciano) in una fattispecie relativa ad un caso di coltivazione di 14 piante di marijuana.
Nondimeno, questa prospettiva di rigore è apparsa fin dall’inizio eccessiva, specie con riferimento alla condotte di coltivazione c. d. “domestica” di poche piantine, destinate a consentire il ricavo di modestissimi quantitativi di principio attivo e, quindi, con un rischio di destinazione a terzi pressoché nullo.
Si è così posta la necessità di trovare, in via interpretativa, una soluzione equilibrata che potesse consentire di escludere la sanzionalibilità penale nei casi di “coltivazione” di pochissime piantine, chiaramente finalizzata a soddisfare l’uso personale del coltivatore … Una soluzione equilibrata che potrebbe rinvenirsi, distinguendo la coltivazione intesa in senso “tecnico agrario”, quale espressamente presa in considerazione e disciplinata negli articoli 26 e 28 del D.P.R. n. 309/1990, dalla modesta attività di coltivazione c. d. “domestica”, che si sostanzia nella messa a dimora da parte di un tossicodipendente in vasi detenuti nella propria abitazione di alcune piantine di sostanze stupefacenti o psicotrope.
Questa tesi interpretativa ha di recente trovato un importante avallo nella giurisprudenza della Cassazione (Sez. VI, 18 Genn. 2007, Notaro; id. Sez. VI, 20 Giugno 2007, concernente un caso di cui si era interessata la Procura Minorile di Sassari), laddove è stata attribuita dignità alla richiamata nozione di “coltivazione domestica” … E debbo dire – questa è almeno la mia opinione – che si tratta di una interpretazione che, lungi dal risolversi in un vulnus alla impostazione di rigore della normativa sanzionatoria, ribadita con forza anche dal Legislatore del 2006, evita il risultato irragionevole di punire sempre e comunque il modesto autocoltivatore di quantitativi irrisori, destinati a soddisfare il proprio fabbisogno personale.
E’ chiaro che per aversi coltivazione “domestica non è necessario che l’attività sia svolta all’interno di un’abitazione o su un balcone o terrazzo attiguo all’abitazione stessa, ben potendo essa essere effettuata anche in un giardino o in un terreno agricolo … Deve quindi trattarsi di una piantagione contenuta come dimensioni, giacché solo in tal caso l’attività svolta sarebbe priva di quei caratteri che debbono ritenersi propri della coltivazione in senso tecnico, penalmente rilevante, che preveda la disponibilità di un terreno, la sua preparazione con impianto di irrigazione, la semina, il governo dello sviluppo delle piante, la presenza di locali destinati alla raccolta del prodotto … Caratteri tutti, che connotano di pericolosità la condotta, giustificandone la sanzionalibilità penale.
Ancora più recentemente, però, si è avuta una nuova inversione di rotta da parte della Suprema Corte, che con una sentenza emessa pronunziata il 10 Luglio 2008, ha invece statuito che la condotta di coltivazione di sostanze stupefacenti costituisce un reato di pericolo e che pertanto è punibile di per sé, a prescindere dal numero di piantine coltivate e anche quando sia realizzata per la destinazione del prodotto a uso personale.
Contrasta però con tale ultima impostazione la sentenza n. 1222 del 14 Gennaio 2009, con la quale la IV Sezione Penale della Suprema Corte, interpretando la condotta di coltivazione alla luce del principio di offensività, ha statuito che ai fini della punibilità di una tale condotta è necessario di volta in volta accertare che nelle piantine in oggetto vi sia una significativa percentuale di principio attivo (THC).
Recita testualmente detta Sentenza che “non è punibile la condotta di coltivazione di piante da stupefacenti allorquando si tratti di piante non ancora giunte a maturazione e che, quindi, non abbiano ancora prodotto sostanza avente efficacia stupefacente o psicotropa” (Nella specie si trattava di 23 piantine di “cannabis sativa”, che per il mancato completamento del ciclo produttivo, solo in via prognostica poteva prevedersi che avrebbero prodotto una notevole quantità di principio attivo).
Occorre precisare in proposito che nelle piantine di piccole dimensioni (di altezza inferiore a 20 cm.) difficilmente può trovarsi THC, che inizia a prodursi in quantità rilevabili quando inizia l’infiorescenza.
Una decisione, quest’ultima, a mio avviso non condivisibile, giacché, seguendo il ragionamento di quei Giudici dovrebbe allora escludersi l’inoffensività della condotta allorquando la coltivazione, magari di notevoli dimensioni per numero di piante messe a dimora, sia stata scoperta all’inizio del processo di maturazione e solo per tale circostanza fattuale sia risultata non caratterizzata dalla presenza di principio attivo.
Il che è tanto più vero, se si considera che in casi come quello appena richiamato si fa dipendere l’inidoneità della condotta da circostanze occasionali e contingenti, quale quella appunto del momento dell’intervento della polizia giudiziaria.
Il trasporto
Quanto alla condotta di trasporto si sono formulate da parte di taluno delle perplessità, sostenendosi che si tratterebbe di condotta rispetto alla quale non potrebbe escludersi concettualmente la destinazione della sostanza stupefacente ad un uso esclusivamente personale, con conseguente irragionevolezza della mancata previsione di tale condotta fra quelle di possibile rilievo solo amministrativo (Artt. 75 e 75 bis D.P.R. n. 309/1990).
In realtà si tratta di un falso problema, ove si consideri che la fattispecie incriminatrice di cui all’art. 73 del D.P.R. n. 309/1990 è costruita come norma a più fattispecie alternative … coltiva, produce, fabbrica, estrae, raffina, vende, offre in vendita, cede, distribuisce, commercia, trasporta, procura ad altri, invia etc. …, con conseguente assorbimento della o delle condotte “minori”, quando più condotte siano commesse nello stesso contesto spazio temporale e riguardino la stessa sostanza stupefacente; il che significa che nella stragrande maggioranza dei casi la condotta di trasporto non ha una sua autonoma rilevanza sanzionatoria rispetto alla condotta di detenzione o a quella di cessione.
Quando invece non ricorrono i presupposti dell’assorbimento e, quindi, la condotta di trasporto conserva una sua autonomia ai fini sanzionatori, risulta del tutto evidenza che ci si debba trovare di fronte ad una condotta che, per differenziarsi da quella di detenzione, acquisto, importazione etc., debba avere ad oggetto un quantitativo così significativo di droga da implicare necessariamente l’utilizzo di un mezzo di trasporto.
Le condotte non caratterizzate “oggettivamente” dalla destinazione a terzi
La nuova disciplina legislativa prevede quindi la rilevanza penale delle condotte ex se non destinate obbiettivamente a terzi, che appaiono però, per le modalità oggettive e soggettive, (“per quantità, in particolare se superiore ai limiti massimi indicati col Decreto Ministeriale, per modalità di presentazione, avuto riguardo ad esempio al confezionamento frazionato ovvero per altre circostanze dell’azione) destinate a terzi ovvero più precisamente “ad un uso non esclusivamente personale” ( art. 73 comma I bis, lettera “a”).
La vera novità della legge di riforma è costituita da quella che potremmo definire la “normalizzazione” di quei criteri indiziari (i c.d. “elementi sintomatici”), utilizzati in giurisprudenza per fondare un giudizio positivo di sussistenza del reato di cui all’art. 73 del D.P.R. n. 309/1990 rispetto alle condotte (acquisto, importazione, detenzione etc.) ex se non qualificate oggettivamente dalla destinazione a terzi.
L’onere della prova circa la destinazione della sostanza ad un uso non esclusivamente personale – così come ripetutamente sottolineato dal Supremo Collegio (v. Cass. Sez. VI, 2 Nov. 2004, Sandri; id. Sez. IV, 4 Giugno 2004, Vidonis) è ovviamente a carico dell’accusa … in prima battuta l’operatore di polizia e poi il pubblico ministero.
Allorquando la prova non è in re ipsa – come nel caso dello spaccio in flagranza – un supporto valutativo a fini probatori lo si trova nei parametri “indiziari” indicati nella norma: anzitutto la “quantità della sostanza”, con attribuita rilevanza al superamento dei limiti di principio attivo indicati nell’apposito decreto ministeriale, “le modalità di presentazione” della sostanza stessa (frazionamento in dosi), le “circostanze dell’azione”, (circostanze obbiettive del sequestro, rinvenimento di sostanze da taglio, rinvenimento di bilancine di precisione, rinvenimento di contabilità attestante il commercio illecito etc.) (v. art. 73, comma I bis, lettera “a” del D.P.R. n. 309/1990).
Analogamente a quanto stabilito dall’art. 2697 C.c., laddove incombe all’attore di provare i fatti che stanno a base della domanda ed al convenuto di provare i dati della realtà che rendono inefficaci i fatti addotti dall’attore, è da dire che nel nostro caso l’interessato, e cioè l’indiziato, ha un “onere di allegazione” di segno contrario rispetto a quello degli inquirenti, nel senso che può controdedurre elementi probatori a proprio favore per dimostrare la destinazione della sostanza all’uso esclusivo proprio.
Ovviamente tale onere allegativo con finalità difensive risulterà tanto più difficile da soddisfare quanto più inequivocabilmente significativi della destinazione all’uso “non esclusivamente personale” risultino i parametri indiziari richiamati nella disposizione incriminatrice.
Per esempio, in presenza di quantitativi significativamente superiori ai limiti di principio attivo indicati nel decreto ministeriale, un soggetto che non sia tossicodipendente ben difficilmente potrebbe sostenere, con buon esito, che trattasi di droga con finalità “di riserva” e di “accumulo” per il proprio futuro uso personale … Ancora, nel caso in cui ci si trovi di fronte ad un accertato frazionamento della droga in dosi commerciali o nel caso di circostanze del sequestro inequivocabilmente dimostrative di un’attività di spaccio, ben difficilmente l’interessato potrebbe articolare, a propria difesa, un uso personale, che finirebbe con l’essere meramente apodittico ed indimostrato, nonostante un dato quantitativo della sostanza ex se non assorbentemente significativo.
La presunzione relativa desumibile dai parametri indiziari
La presunzione ex art. 73, comma I bis, lettera a) è quindi solo relativa, nel senso che può esservi spazio – come si è detto – per un’allegazione difensiva atta a dimostrare l’inidoneità e la non concludenza della valenza indiziante prospettata dall’accusa, in coerente applicazione del già richiamato art. 2697 C.c.
Che si tratti di una presunzione solo relativa lo si desume in primo luogo dalla formulazione della lettera della legge, laddove l’utilizzo del verbo “apparire” (“ …è punito chiunque … importa … o comunque illecitamente detiene: a) sostanze stupefacenti che per quantità …ovvero per le modalità di presentazione … appaiono destinate ad uso non esclusivamente personale”: cosi il comma I bis, lettera a) dell’art. 73 del D.P.R. n. 309/1990) dimostra che, perché possa ritenersi sussistente il reato, deve esservi un apprezzamento del Giudice, il quale, proprio utilizzando i “criteri indiziari”, potrà condannare l’imputato se (e solo se) ritenga dimostrata con certezza la destinazione della droga “ad un uso non esclusivamente personale”, potendo motivare al riguardo “al di là da ogni ragionevole dubbio” (v. art. 533, comma I C.p.p.).
Lo si desume quindi dalla corretta interpretazione logico sistematica dei diversi criteri, che, eccezion fatta per quello basato sul quantitativo della sostanza, non possono che essere valorizzati ai fini indiziari dal necessario apprezzamento del Giudice.
Lo si desume ancora dall’iter legislativo, se si tien conto del fatto che il disegno di legge governativo era in origine caratterizzato da una sorta di presunzione assoluta di sussistenza del reato basata sul superamento di una determinata soglia quantitativa. In origine veniva infatti prevista la rilevanza penale anche delle condotte ex se non destinate obbiettivamente a terzi ogniqualvolta la sostanza avesse superato una determinata soglia quantitativa, di modo che il fatto integrava tout court la fattispecie incriminatrice, senza che occorresse la dimostrazione in concreto della destinazione possibile della sostanza allo spaccio e senza che il trasgressore potesse, di contro, articolare alcuna prova liberatoria tale da consentirgli di eludere l’applicazione della sanzione penale. Si trattava in effetti di una sorta di presunzione iuris et de jure, che si basava sulla ritenuta pericolosità della condotta in virtù del quantitativo che ne costituiva l’oggetto materiale. Il testo legislativo è stato però espressamente modificato, proprio attraverso l’eliminazione di tale presunzione assoluta e l’attribuzione di una valenza presuntiva solo relativa al parametro indiziario basato sul quantitativo della sostanza stupefacente.
Lo si desume infine dal tenore della diversa formulazione del comma I bis, lettera b) dello stesso art. 73 (“ … E’ punito chiunque, senza l’aautorizzazione di cui all’art. 17, … illecitamente detiene … medicinali contenenti sostanze stupefacenti o psicotrope elencate nella tabella II, sezione A, che eccedono il quantitativo prescritto …), dedicato ai medicinali suscettibili di abuso contenenti sostanze stupefacenti o psicotrope, rispetto ai quali il reato sussiste ogniqualvolta venga superato il quantitativo prescritto, senza che vi sia spazio per una prova liberatoria da parte dell’interessato che possa “giustificare” la detenzione “oltre il prescritto”, potendosi eventualmente, quale unica allegazione difensiva in grado di vincere la presunzione, prevedere il difetto di dolo, nel senso di un errore in cui sia incorso il detentore o sul contenuto della prescrizione o sul quantitativo materialmente detenuto.
La regola dell’ “al di là di ogni ragionevole dubbio”
La valenza della presunzione relativa va in proposito apprezzata alla luce del principio dell’ “al di là di ogni ragionevole dubbio”, richiesto ai fini della condanna dall’art. 533 comma I C.p.p., così come modificato dalla legge n. 46 del 2006 (“Il Giudice pronunzia Sentenza di condanna se l’imputato risulta colpevole del reato contestatogli al di là di ogni ragionevole dubbio”).
Ciò significa che la valenza presuntivamente indiziante dei criteri sopra menzionati legittima senz’altro la polizia giudiziaria e il pubblico ministero a ipotizzare il reato e può legittimare anche la condanna, sempre che il Giudice ritenga che la valenza indiziante superi il vaglio del principio dell’ “al di là di ogni ragionevole dubbio”.
Esemplificando, il Giudice potrà condannare in presenza di una condotta di detenzione di un quantitativo di sostanza stupefacente il cui principio attivo risulti superiore al quantitativo massimo previsto in tabella, solo se ritenga di poter motivare, alla luce delle complessive risultanze del caso concreto, “al di là di ogni ragionevole dubbio”, che si tratti di droga che “appaia” destinata ad un uso non esclusivamente personale.
Lo stesso Giudice, nel determinarsi eventualmente all’assoluzione, dovrà dare contezza degli elementi, in forza dei quali consideri neutralizzata e non concludente la valenza indiziaria dei parametri.
La valenza probatoria dei criteri indiziari
I criteri indiziari di cui si è detto debbono essere intesi come alternativi, complementari e, senz’altro, non esaustivi.
Hanno valenza alternativa nel senso che anche la presenza di uno solo di essi consente di ipotizzare presuntivamente il reato; il che traspare chiaramente dalle disgiuntive “o” e “ovvero” utilizzate nell’art. 73, comma I bis, lettera a).
Il che ha importanza, giacché, anche nella ipotesi di non superamento del quantitativo di principio attivo indicato nella tabella ministeriale, sarà possibile contestare il reato sulla base della utilizzazione degli altri criteri: sotto questo profilo potrà ben essere contestato ad esempio il reato di cui all’art. 73 in caso di detenzione di quantitativi “sotto soglia”, ma in un contesto oggettivo in equivoco della destinazione della sostanza ad un uso non esclusivamente personale (come nel caso di “sostanza stupefacente frazionata in dosi commerciali”, “sequestro operato in un contesto che deponga in maniera in equivoca nel senso dello svolgimento di un’attività di spaccio” etc.).
I criteri in oggetti hanno d’altronde valenza complementare, nel senso che, quanto più sono presenti elementi indiziari convergenti, tanto più sarà difficile articolare l’onere di allegazione difensiva.
Hanno infine valenza non esaustiva, nel senso che possono e debbono considerarsi anche altri elementi di valutazione (specie di natura soggettiva, come la qualità di tossicodipendente o no del trasgressore o come le condizioni economiche del reo rapportate all’importo delle somme spese per l’acquisto della droga) emergenti dalla fattispecie, utilizzabili per corroborare o smentire la valenza indiziante a carico.
L’aumento (bocciato) dei quantitativi della “cannabis”
Voglio a questo punto ricordare, più che altro per dovere di informazione, che, con decreto del Ministero della salute del 4 Agosto 2006 – che aveva suscitato un mare di polemiche – si era provveduto a modificare il decreto dell’11 Aprile precedente sui limiti quantitativi massimi riferibili ad un uso esclusivamente personale delle sostanze stupefacenti, con specifico riferimento alla cannabis, rideterminandone in alto, per così dire, la “quantità massima detenibile”.
Si era così intervenuti sul “moltiplicatore variabile” della “dose media singola”, che passava da “20” a “40”, sicché il quantitativo massimo detenibile della sostanza, superato il quale poteva ritenersi sussistente la presunzione che si trattasse di sostanza “destinata ad uso non esclusivamente personale”, era passato dai 500 mg. fissati dal decreto ministeriale dell’11 Aprile 2006 ai 1.000 mg.
In seguito all’annullamento da parte del T.A.R. Lazio di siffatto decreto di modifica ha ripreso valore il decreto ministeriale dell’11 Aprile 2006, che è quindi sempre quello al quale occorre fare riferimento per la determinazione dei limiti quantitativi massimi riferibili ad un uso esclusivamente personale delle varie sostanze stupefacenti, ivi compresi l’hashish e la marijuana.
L’ “uso di gruppo”
Merita a questo punto soffermarsi brevemente sul c. d. “uso di gruppo” delle sostanze stupefacenti.
Prima della novella del 2006 una questione di grande interesse, specie dopo gli esiti del referendum più sopra richiamato, era costituita dal trattamento sanzionatorio del c. d. “uso di gruppo” delle sostanze stupefacenti, con particolare riferimento al caso delle “collette”, ovvero del caso in cui un soggetto avesse proceduto all’azuisto ed alla successiva cessione della sostanza per farne appunto “uso di gruppo”, unitamente ai terzi mandanti, che previamente gliene avevano affidato l’incarico.
A dirimere una serie di contrasti fra le varie Sezioni della Cassazione erano intervenute le SS. UU., che, con la nota Sentenza in data 28 Maggio 1997, avevano finito per aderire all’orientamento favorevole ad attribuire al fatto una mera rilevanza amministrativa.
Secondo le SS.UU. in sostanza doveva ravvisarsi l’illecito amministrativo di cui all’art. 75 del D.P.R. n. 309/1990 e non il reato previsto dall’art. 73 dello stesso D.P.R., non solo nel caso di “acquisto contestuale” di sostanza stupefacente per uso personale da parte di tutti gli appartenenti ad un gruppo, ma anche in quello in cui solo alcuni dei componenti del gruppo avevano proceduto all’acquisto della sostanza per conto (su “mandato”) degli altri e poi avevano proceduto alla materiale suddivisione della stessa.
Ad avviso del Giudici del Supremo Collegio quindi tutti gli appartenenti al gruppo fin da subito, proprio in ragione del mandato conferito avrebbero acquistato la disponibilità pro quota della sostanza, con l’effetto che la successiva ripartizione per l’uso in comune era da considerarsi penalmente non significativa.
In sostanza veniva così applicata agli acquirenti in nome e per conto degli altri appartenenti al gruppo la disciplina civilistica del “mandato”, coi relativi effetti quanto all’acquisto e alla disponibilità della sostanza (Si vedano in proposito l’art. 1388 C.c., secondo cui “Il contratto concluso dal rappresentante in nome e nell’interesse del rappresentato, nei limiti delle facoltà conferitegli, produce direttamente effetto nei confronti del rappresentato” e l’art. 1706, sempre del C.c., secondo cui “Il mandante può rivendicare le cose mobili acquistate per suo conto dal mandatario che ha agito in nome proprio …”.
La questione in oggetto sembra però ormai definitivamente risolta a seguito della novella legislativa del 2006.
Ed invero dalla nuova formulazione dell’art. 73, commi I bis, lettera a) si evince abbastanza chiaramente come debba riconoscersi rilevanza penale all’uso che non sia esclusivamente personale, avendo il Legislatore preso una netta posizione negativa nei confronti della rilevanza solo amministrativa delle condotte in genere riconducibili all’ “uso di gruppo”.
Una conferma di tale impostazione la si può del resto trarre dal disposto del “nuovo “art. 75, comma I del D.P.R. n. 309/1990, laddove il fatto amministrativo è costruito, eccettuando le ipotesi di cui all’art. 73 comma I bis e, quindi, anche quelle di detenzione che si palesino destinate “ad un uso non esclusivamente personale”.
E debbo dire che trattasi di una scelta sostanzialmente giusta, giacché l’ “uso di gruppo”, specie quello che si caratterizza nella forma del “mandato ad acquistare”, costituisce una condotta potenzialmente pericolosa della diffusione di sostanze stupefacenti, giacché grazie ad esso finisce per configurarsi la condotta di “procurare ad altri”, espressamente prevista e sanzionata penalmente dall’art. 73.
Fatto di lieve entità e recidiva
L’articolo 73 del D.P.R. in esame, al comma V prevede la circostanza attenuante del “fatto di lieve entità” allorché i fatti delittuosi siano appunto di “lieve entità” “per i mezzi, per la modalità o le circostanze dell’azione ovvero per la qualità o quantità delle sostanze.
Sotto questo profilo, si pone un ulteriore problema in caso di contestazione della recidiva reiterata, in quanto la fattispecie della “lieve entità” è ormai considerata una circostanza attenuante speciale dei delitti previsti dal più volte richiamato art. 73 e non – come ipotizzava qualcuno – una fattispecie autonoma di reato.
Se questo è vero, ne deriva come conseguenza la valutazione comparativa ex art. 69 C.p. con le altre circostanze del reato, compresa quindi anche la recidiva.
Richiamo a questo punto l’art. 69 C.p., che recita testualmente: “Quando concorrono insieme circostanze aggravanti e circostanze attenuanti e le prime sono dal Giudice ritenute prevalenti, non si tien conto delle diminuzioni di pena stabilite per le circostanze attenuanti e si fa luogo soltanto agli aumenti di pena stabilite per le circostanze aggravanti.
Se le circostanze attenuanti sono ritenute prevalenti sulle circostanze aggravanti, non si tien conto degli aumenti di pena stabiliti per queste ultime e si fa luogo soltanto alle diminuzioni di pena stabilite per le circostanze attenuanti.
In proposito va posta l’attenzione sul disposto del comma IV dell’art. 69 C.p., come modificato dall’art. 3 della L. 5 Dicembre 2005 n. 251 (c.d. “Legge ex Cirielli”), che limita fortemente il potere discrezionale attribuito dall’art. 69 C.p. al Giudice in sede di comparazione fra le circostanze.
Il IV comma appena richiamato che le regole ordinarie sulla comparazione contenute nei primi tre commi non si applicano, nella loro massima estensione, nell’ipotesi di recidiva reiterata ed in quelle in cui siano state contestate e ritenute le circostanze aggravanti previste dagli artt. 111 e 112 comma I n. 4 C.p., e cioè quelle previste nel concorso di persone a carico di chi abbia determinato a commettere il reato rispettivamente una persona non imputabile o non punibile ovvero un minore degli anni 18 o persona in stato di infermità o di deficienza psichica: tutte ipotesi, queste, in cui le eventuali attenuanti, ivi comprese quindi anche quella del fatto di “lieve entità”, non possono mai essere ritenute prevalenti, ma solo equivalenti rispetto alle ritenute circostanze aggravanti.
Trattasi indubbiamente di disposizione di particolare rigore, sol che si consideri che nei casi appena richiamati, anche nelle ipotesi minime e modestissime di spaccio di sostanze stupefacenti la pena minima applicabile sarebbe quella base indicata nel comma I dell’art. 73 di anni sei di reclusione ed € 26.000.
L’evoluzione della giurisprudenza
La giurisprudenza di merito ha pertanto cercato di trovare in via interpretativa una soluzione correttiva a tanto rigore con una serie di decisioni che per brevità evito di richiamare … Intervenne anche la Cassazione, dapprima in termini restrittivi e in un secondo momento in termini, diciamo meno rigorosi.
La questione pare però oggi superata alla luce degli spazi offerti dalla Sentenza della Corte Costituzionale 14 Giugno 2007 n. 192, che ha fatto sì che si formasse un orientamento interpretativo della giurisprudenza di legittimità, secondo cui tutte le ipotesi di recidiva, eccezion fatta per quella di cui al comma 5 dell’art. 69 C.p., erano da intendersi come facoltative.
Secondo tale prospettazione, quando il Giudice ritiene di non applicare in concreto la recidiva, per i più vari motivi attinenti alla scarsa pericolosità, non dovrebbe operare l’effetto preclusivo ex art. 69 comma IV C.p.
La sostituzione della pena con il lavoro di pubblica utilità
A completamento del discorso sull’attenuante del fatto di “lieve entità”, merita di essere richiamata l’attenzione su una delle novità più importanti introdotte con la Legge n. 459 del 2006.
In una prospettiva di ampliamento delle possibilità di recupero del tossicodipendente si è infatti previsto al comma 5 bis dell’art. 73 che il Giudice, nell’ipotesi in cui ritenga sussistente il fatto di “lieve entità”, possa applicare, con la Sentenza di condanna o di applicazione della pena su richiesta delle parti ex art. 444 C.p.p., anziché le pene detentiva e pecuniaria, quella del lavoro di pubblica utilità prevista dall’art. 54 del D. L.vo 28 Agosto 2000 n. 274.
Dal punto di vista procedurale l’applicazione del lavoro di pubblica utilità, disciplinato in via generale – come si è detto – dall’art. 54 del D. L.vo n. 274 del 2000, è subordinata peraltro alle seguenti tre condizioni:
A) alla circostanza che il Giudice non ritenga di dover concedere il beneficio della sospensione condizionale della pena; il che è facilmente comprensibile se si considera la natura di tale sanzione sostitutiva;
B) alla esplicita richiesta dell’imputato, che risulti essere “persona tossicodipendente” o “assuntore di sostanze stupefacenti o psicotrope” … richiesta che è il presupposto essenziale della “sostituzione”, non potendo il Giudice provvedere d’ufficio;
C) al parere, non vincolante, del pubblico ministero, che deve essere “sentito” sulla richiesta dell’imputato, svolgendo quindi un ruolo preminentemente consultivo; ciò significa che il Giudice può aderire alla richiesta dell’imputato, anche andando di diverso avviso rispetto alle determinazioni del pubblico ministero, così come potrebbe non accogliere la richiesta, pur in presenza di un parere positivo dello stesso pubblico ministero.
Conclusioni
A nostro avviso, con l’ultimo provvedimento legislativo è stata intrapresa la strada migliore, quella di un “proibizionismo totale”, che definirei “temperato”, muovendo dal principio che una corretta politica di controllo sociale sull’uso degli stupefacenti debba avere i seguenti obbiettivi:
1) quello di scoraggiare l’uso della droga in genere;
2) quello, quindi, di prevenire l’uso irresponsabile;
3) e quello, infine, di curare le conseguenze dell’uso irresponsabile.
Una legge, quindi, quest’ultima richiamata, indubbiamente perfettibile, ma – allo stato – abbastanza soddisfacente, contro la quale si sono scagliati negli ultimi tempi gli strali di non pochi giuristi e politici, i quali han parlato ingiustamente di “ritorno alla strategia del proibizionismo”, criticando quella da loro definita “tolleranza zero” ed asserendo, falsamente, che non esisterebbe più alcuna distinzione fra spacciatore e mero consumatore e lamentando l’avvenuta, a loro dire, pericolosissima equiparazione fra droghe leggere e droghe pesanti.
Orbene, se è incontestabile che la legge presenti anche degli aspetti di non facile interpretazione, specie per quanto attiene alle tabelle che regolano la quantità di droga massima da considerarsi per uso personale, nondimeno è importante che ora, grazie ad essa, l’uso personale venga, non solo deprecato e segnalato, ma anche punito, si badi bene, peraltro, con mere sanzioni di carattere amministrativo delle quali non abbiamo avuto oggi il tempo di parlare e in ordine alle quali invito a rileggere attentamente il novellato art. 75.
Non è vero, quindi, che vi sia stata un’equiparazione del tossicodipendente allo spacciatore, così come non è vero che si sia dato vita al binomio possesso di droga = carcere.
In realtà col nuovo impianto legislativo si consente ora al Giudice di valutare in concreto la possibilità di cura e di rieducazione di un soggetto assuntore di sostanze stupefacenti; il che rivela, non già un intento persecutorio e repressivo, ma una chiara volontà di sostegno in favore dello stesso tossicodipendente, con un controllo ravvicinato, volto a favorirne il recupero, così da impedire che egli possa divenire a sua volta veicolo di contagio per tanti altri giovani.
Oltre a ciò, sono stati poi valorizzati i compiti ed i poteri della polizia giudiziaria, dando anche vita alla figura dell’ “agente provocatore” (v. art. 97), per cui non sono punibili gli ufficiali di p.g., i quali, al solo fine di acquisire elementi di prova in ordine ai delitti in materia di stupefacenti, acquistano, ricevono, sostituiscono ed occultano, anche per interposta persona, sostanze stupefacenti o psicotrope o compiono attività prodromiche e strumentali”.
Il che non è poco, anche se il pericolo è sempre dietro l’angolo e molto resta ancora da fare, specie dopo la comparsa delle c.d. “smart drugs” o “droghe furbe”, così chiamate perché non perseguibili dalla legge, in quanto, pur essendo dannose per la salute delle persone, non sono presenti nelle tabelle legislative perché i loro principi attivi non sono riconosciuti e si trovano purtroppo in libera vendita nei c. d. “smart shop”, che in Italia sono ormai più di un centinaio, sotto forma di bibite energetiche, pillole, gocce o erbe aromatiche; i dati su di esse, molto preoccupanti, sono stati diffusi due anni fa a Roma dall’Istituto Superiore di Sanità in occasione di una conferenza sulle tossicodipendenze, per cui v’è da augurarsi che si intervenga ulteriormente sul piano legislativo per scongiurare potenziali, ulteriori gravissimi danni alla Società.
Cagliari, Facoltà di Giurisprudenza, 19 Marzo 2009