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18/11/2011  - Relazione della Dott.ssa M. Alessandra Pelagatti presentata in occasione dell'incontro studio "Fatto ed imputazione: dalle indagini al giudizio" tenuto presso
CONSIGLIO SUPERIORE DELLA MAGISTRATURA
Nona Commissione – Tirocinio e Formazione professionale

Incontro di studio:
Fatto ed imputazione: dalle indagini al giudizio

La “lettura” del fatto accertato in sede cognitiva per l’intervento sul titolo in esecuzione: conflitto pratico di giudicati, abolitio criminis, applicazione della disciplina del reato continuato.

Considerazioni generali
Il tema che mi è stato assegnato ha ad oggetto i rapporti tra il fatto accertato nella sentenza penale irrevocabile dal Giudice della cognizione e la fase dell’esecuzione: in particolare si tratta di verificare come l’accertamento e la valutazione del fatto operati dal Giudice della cognizione influenzino la fase esecutiva, ed ancora se e in quali limiti il Giudice della esecuzione possa conoscere e interloquire sul fatto accertato nella pronunzia definitiva, nell’ambito degli interventi sulla pronunzia definitiva che la legge gli consente di eseguire.
Si tratta di problematiche strettamente connesse al tema del giudicato, indubbiamente uno tra i più delicati e controversi della procedura penale:
uno dei pochi punti fermi in questa materia è rappresentato dalla definizione di giudicato inteso come sentenza penale irrevocabile perché non più impugnabile (o per essere scaduti inutilmente i relativi termini, o per l’avvenuto esperimento di tutti i mezzi di gravame consentiti).
E’ questa la definizione del giudicato in senso formale, che si connota positivamente per la forza riconosciuta dall’ordinamento alla sentenza irrevocabile di regolare in modo immutabile la vicenda fattuale oggetto della decisione,
e negativamente, ma in modo strettamente correlato alla irrevocabilità, per l’efficacia preclusiva sancita dall’art.649 c.p.p.: il passaggio in giudicato della sentenza produce la definitiva consunzione della azione penale relativamente allo stesso fatto e allo stesso soggetto, con il conseguente divieto di sottoporre ad altro procedimento lo stesso soggetto per lo stesso fatto ancorché diversamente qualificato o circostanziato salve le ipotesi di morte del reo erroneamente dichiarata o di sopravvenienza di una condizione di procedibilità ex art.345 c.p.p.
Ma, accanto a questa connotazione o valenza formale il giudicato ne riveste anche una sostanziale, che possiamo riassumere nel carattere della imperatività, nel senso che la sentenza definitiva contiene una regolamentazione del caso concreto che ha efficacia normativa e costituisce, in linea teorica, un atto vincolante che deve essere pertanto rispettato ed eseguito nei confronti dei soggetti che hanno partecipato al procedimento con essa definito.
In realtà il principio della intangibilità del giudicato intesa nella duplice valenza della immutabilità e della vincolatività che abbiamo specificato soffre nell’attuale sistema vere e proprie deroghe, o quanto meno presenta criticità molteplici e significative, in gran parte collegate al fatto che, a differenza della sentenza civile, quella penale investe diritti fondamentali come la libertà personale o beni costituzionalmente protetti come la funzione rieducativa della pena.
In certi casi, la tutela di tali diritti e beni richiede, secondo la valutazione compiuta a priori dal legislatore, il sacrificio dell’interesse alla stabilità dei rapporti giuridici da esso definitivamente regolamentati, cui è direttamente finalizzata la irrevocabilità del giudicato, e richiede perfino, poiché parliamo di esecuzione di sentenze di condanna, il sacrificio dell’interesse alla certezza della pena, conseguenza immediata della vincolatività e forza coercitiva della condanna definitiva.
Si aprono così delle crepe profonde nel principio della inviolabilità del giudicato, e ciò avviene attraverso un complesso di norme e istituti che proprio perché derogano a principi generali hanno carattere eccezionale e non sono suscettibili di applicazione analogica.
Cionondimeno, esse vengono a comporre un sistema estremamente articolato e pervasivo, perché ha un ambito di operatività alquanto ampio:
si pensi alle cause di estinzione del reato e della pena applicate in fase esecutiva, che intaccano la cogenza della condanna vanificandone in tutto o in parte le statuizioni punitive;
si pensi a tutta la normativa penitenziaria in materia di misure alternative alla detenzione e in genere di benefici penitenziari, come i permessi premio e la liberazione anticipata, che rappresentano un vulnus imponente al principio della cogenza e vincolatività del giudicato, posto che la pena inflitta dal Giudice della cognizione con la condanna, pur restando immutabile come dato quantitativo, può essere in concreto scontata in forme diverse da quelle stabilite dal predetto Giudice e per un tempo inferiore, e ciò avviene in quanto la funzione rieducativa della pena impone di modulare in concreto la sanzione in relazione al percorso riabilitativo del condannato e alle tappe di tale percorso.
L’intangibilità del giudicato rappresenta pertanto un valore relativo in particolare nell’esperienza legislativa degli ultimi trent’anni, tanto che alcuni commentatori non esitano a parlare di precarietà o provvisorietà della sentenza definitiva di condanna nel nostro ordinamento, essendo la pena concretamente eseguibile non necessariamente quella determinata dal Giudice della cognizione, ma quella individuata da altri Giudici.
Per la verità, non sono mancati di recente segnali consistenti di qualche battuta d’arresto se non proprio di revirement nella prospettiva descritta: non si può infatti ignorare che nell’attuale momento storico gli orientamenti della politica criminale sembrano indirizzati, sotto la spinta emergenziale di una accentuata crisi della sicurezza, nel senso di rivalutare il principio della certezza della pena, anche se allo stato esclusivamente nei confronti di delinquenti plurirecidivi, come attestano le limitazioni penitenziarie a carico dei recidivi reiterati poste dalla legge Cirielli.
Possiamo però dire che al di là di queste “deviazioni”, per ora circoscritte, quello disegnato dal codice di rito è un sistema nel quale il principio della intangibilità del giudicato, ancorché costituisca un pilastro irrinunciabile, presenta alcuni precisi e significativi connotati di flessibilità.
Si tratta, occorre ribadirlo, di un principio fondamentale dell’ordinamento: l’accertamento del fatto e la qualificazione giuridica del reato contenuti nella sentenza definitiva sono immutabili nel senso che non possono essere messi in discussione o modificati dal Giudice dell’esecuzione né da quello di sorveglianza.
Dunque, un principio fondamentale che però, lo ripetiamo, soffre significative limitazioni perché vi sono specifiche ipotesi in cui l’ordinamento consente addirittura la caducazione totale del giudicato, la sua radicale estromissione dal mondo del diritto, ovvero la modifica o integrazione del suo contenuto.
Sotto il primo profilo vengono in considerazione le disposizioni che consentono la revoca - in presenza di determinati presupposti - delle sentenze penali definitive,
sul secondo versante si collocano le norme che consentono, vedremo in che termini, la modificazione delle statuizioni punitive della condanna definitiva e di quelle ad esse strettamente correlate.
Si tratta di interventi esecutivi di caducazione o modifica del giudicato penale solitamente - lo anticipiamo sin da ora - in bonam partem (e infatti la revocabilità delle sentenze, al pari della revisione, riguarda solo le condanne e non anche i proscioglimenti, salvo una eccezione di cui diremo).
Tuttavia non mancano casi in cui l’intervento in executivis sul giudicato penale si risolve in un peggiore trattamento per il condannato, come avviene nell’ipotesi di revoca ex art.674 comma 1 bis c.p.p. della sospensione condizionale illegittimamente concessa al di sopra dei limiti di pena o per più di due volte, casi in cui l’esigenza del ripristino della legalità prevale sulla forza del giudicato.
Ciò detto, e sempre in linea generale, si può affermare che la revocabilità delle sentenze risponde essenzialmente ad una esigenza di coerenza interna del sistema processuale - penale, a garanzia del principio di non contraddizione.
La revoca della sentenza definitiva infatti è consentita solamente in alcune ipotesi, individuate dal legislatore, in cui la sua permanenza nell’ordinamento sarebbe intollerabile
a) o perché si tratta di condanna a posteriori ingiusta, in quanto pronunziata per fatti successivamente depenalizzati o comunque non costituenti più reato e ritenuti pertanto penalmente irrilevanti (art.673 c.p.p.: revoca per abolitio criminis), sicchè sarebbe incoerente con il sistema consentire la conservazione di tale pronunzia e dei relativi effetti penali;
b) ovvero perché si tratta di sentenza concorrente con altra e con questa incompatibile perché regolante diversamente la stessa fattispecie nei confronti dello stesso soggetto, il che rende necessaria una scelta, non essendo consentito che nessuna delle due sentenze venga eseguita, e non essendo d’altronde materialmente possibile che vengano eseguite entrambe (art.669 c.p.p.: c.d. contrasto pratico di giudicati).
Quanto agli interventi esecutivi che modificano o integrano alcune delle statuizioni contenute nella condanna definitiva, vengono in considerazione
1) le norme che consentono la applicazione in sede esecutiva di cause estintive del reato o della pena;
2) quelle che consentono la revoca in executivis della sospensione condizionale della pena nel caso sopra citato di beneficio illegittimamente concesso, ovvero negli altri casi di decadenza dal beneficio per fatti sopravvenuti ex art. 168 c.p.
3) infine la disposizione, introdotta dal codice del 1989 con l’art.671 c.p.p., che consente l’applicazione in sede esecutiva della disciplina del reato continuato in relazione a fatti oggetto di condanne diverse.
Tutte le tipologie di intervento del G.E. sul giudicato che abbiamo descritto da un lato implicano la presa d’atto del contenuto cognitivo della sentenza, da cui il G.E. non può prescindere
e nello stesso tempo costituiscono altrettante forme di controllo da parte del G.E. in ordine alla perdurante legalità e adeguatezza del giudicato,
controllo il cui esercizio richiede in sede esecutiva uno sforzo interpretativo perché il G.E., pur non potendo ricostruire diversamente né diversamente valutare i fatti oggetto della sentenza, tuttavia deve procedere all’esame e alla delibazione della portata oggettiva di quei fatti e della valutazione operatane in sede di cognizione, per poter applicare gli istituti che abbiamo indicato e soprattutto assumere, come la legge gli richiede, i provvedimenti conseguenti alla caducazione o modifica del giudicato penale.
In questo senso si deve parlare di “lettura” in executivis del fatto accertato in sede di cognizione:
la ricognizione del fatto accertato in sentenza da un lato costituisce la necessaria e immutabile premessa per la applicazione degli istituti che abbiamo indicato,
ma rappresenta anche il punto di partenza per ulteriori provvedimenti del G.E., direttamente derivanti dalla disposta caducazione o integrazione del giudicato: si pensi alla concessione della sospensione condizionale della pena in executivis in conseguenza della applicazione della continuazione o della revoca di una sentenza ex art.673 c.p.p.

Contrasto pratico di giudicati
Si verifica quando uno stesso soggetto sia giudicato due volte per lo stesso fatto.
Il sistema processuale prevede una serie di norme volte a evitare l’evenienza patologica della duplicazione dei giudizi e delle sentenze: si pensi alle norme sui conflitti di competenza, a quella (art. 735 c.p.p.) che vieta il riconoscimento in Italia di una sentenza straniera quando si sia già pronunziato sullo stesso fatto e persona il Giudice Italiano e alla norma regina dell’art.649 c.p.p. che sancisce l’improcedibilità della azione penale a carico dello stesso soggetto per lo stesso fatto.
Quando questi meccanismi si inceppino e intervenga una doppia sentenza l’impasse derivante dalla coesistenza di più sentenze tutte eseguibili nei confronti dello stesso soggetto per lo stesso fatto si risolve secondo i dettami dell’art. 669 c.p.p.: in caso di pluralità di condanne si esegue quella meno grave e vengono revocate le altre; in caso di condanna e proscioglimento si revoca la condanna; in caso di più proscioglimenti spetta al prosciolto dire quale voglia eseguita, altrimenti cadono le meno favorevoli (art.669 comma 7 c.p.p.).
Naturalmente la regola dell’art.669 c.p.p,. riguarda il caso di concorso di più sentenze tutte irrevocabili relative allo stesso fatto e allo stesso soggetto: tra una condanna irrevocabile e una sentenza di non luogo a procedere si dà esecuzione ex art.669 comma 9 c.p.p. alla condanna ancorché meno favorevole perchè si privilegia il carattere di irrevocabilità.
La regola dell’art. 669 c.p.p. opera anche tra provvedimenti resi in executivis che siano relativi alla stessa vicenda e riguardino lo stesso soggetto: si esegue quello più favorevole (per es. in materia di continuazione: Sez.I n.28581 del 2008).
I problemi connessi alla applicazione dell’art.669 c.p.p. riguardano la individuazione del concetto di identità o medesimezza del fatto e sotto questo profilo non vi sono differenze con le analoghe questioni poste dalla applicazione dell’art.649 c.p.p.
Non mi attarderò pertanto su tali problematiche, che hanno formato oggetto di precedenti relazioni.
E’ sufficiente ricordare che l’identità del fatto sussiste secondo una autorevole dottrina quando la condotta sia la medesima, senza che rilevino le modalità, ancorché in ipotesi diversamente descritte nei rispettivi capi di imputazione, e senza che rilevi nemmeno l’evento: se A viene definitivamente condannato o assolto per avere percosso B non potrà più essere giudicato per omicidio in caso di morte della vittima; egualmente se A viene giudicato per avere percosso B con un bastone non potrà più essere giudicato per lo stesso fatto contestato come commesso con modalità spazio-temporali o esecutive diverse perché ciò che conta è l’accadimento in sé mentre il titolo del reato, le circostanze e il grado di progressione delle conseguenze non rilevano secondo il disposto dell’art.649 c.p.p.
La giurisprudenza è stata a lungo divisa nel tracciare l’ambito di applicazione della norma tra l’orientamento rigoroso che abbiamo indicato, rispondente alla lettera dell’art.649 c.p.p., e una interpretazione più elastica.
Da ultimo si sono pronunziate le SS.UU. della Cassazione che con sentenza n.34655 del 2005 hanno definitivamente chiarito, esprimendo un orientamento dissonante dalla dottrina richiamata, che la identità del fatto va intesa come corrispondenza storico-naturalistica nella configurazione del reato, considerato in tutti i suoi elementi costitutivi (condotta, nesso causale, evento) e con riguardo altresì alle circostanze di tempo, di luogo e di persona.
In questa prospettiva, è stata ritenuta la medesimezza del fatto nel caso di due procedimenti attivati contro due soggetti cui erano state sequestrate separatamente diverse cose provento di furto, procedimenti in uno dei quali era stato attribuita a entrambi la ricettazione in concorso di tutto il compendio sequestrato, mentre nell’altro era stata ascritta a ciascuno la ricettazione delle sole cose trovate nella rispettiva disponibilità: la Cassazione ha ritenuto che si trattasse di un unico fatto di ricettazione e che la sfasatura tra le imputazioni dipendesse dalla differente qualificazione giuridica del titolo di imputazione della responsabilità (concorsuale in un caso, individuale nell’altro) e non dalla individuazione di fattispecie ontologicamente autonome e distinte per la diversità delle rispettive componenti strutturali. Ne è conseguita la applicazione dell’art.669 c.p.p. e la messa in esecuzione della condanna meno grave.
Problematica può risultare la valutazione della identità del fatto quando si tratti di procedimento per reato abituale, le cui singole componenti oggettive, integranti di per sé reato, siano state fatte oggetto di procedimenti distinti: il caso più emblematico è quello del delitto di maltrattamenti in famiglia nel cui ambito siano ricomprese condotte criminose già giudicate come fatti autonomi.
Anche in questo caso la giurisprudenza, in contrasto con la dottrina, propone un concetto di identità del fatto che si aggancia alla coincidenza fra tutte le componenti delle concrete fattispecie, e consente che diversi episodi di maltrattamenti circoscritti nel tempo, per i quali siano intervenute diverse sentenze di proscioglimento, possano inserirsi come segmenti di un più ampio comportamento vessatorio, in un’articolata condotta criminosa come quella prevista dall’art.572 c.p. che si connota di autonomia propria che la diversifica, così escludendo la coincidenza che costituisce presupposto dell’applicazione dell’art. 669 c.p.p. (Cass. sez.I, n.5036/1993).

Applicazione della disciplina del reato continuato
La disposizione (art.671 c.p.p.) che consente l’applicazione della continuazione in executivis in relazione a fatti giudicati separatamente, ma commessi in esecuzione del medesimo disegno criminoso rappresenta una novità introdotta per la prima volta nel nostro sistema dal codice di rito del 1989 per porre rimedio ad un effetto negativo della avversione codicistica per il simultanueus processus e corrispondentemente del favor separationis, effetto negativo rappresentato appunto dalla impossibilità di applicare in sede di cognizione i benefici della continuazione a fatti pur commessi in esecuzione di uno stesso disegno criminoso, per essere essi giudicati separatamente.
Si tratta di una disposizione non priva di logica, ma criticata da più parti perché contribuisce a rendere particolarmente incerta la quantificazione della pena da scontare, tanto più che la legge non prescrive termini entro i quali il p.m., la difesa o l’interessato possono chiederne la applicazione
e considerato altresì, per altro verso, che la giurisprudenza consente un ampio ricorso all’istituto, perfino quando la sua applicazione non abbia effetti immediati sulla entità delle pene da espiare in relazione ai fatti in continuazione, perché già completamente scontate
e ciò in quanto la giurisprudenza valorizza l’interesse del condannato ad imputare ad altra condanna la pena espiata oltre la misura rideterminata ai sensi dell’art.671 c.p.p. ovvero ad escludere o limitare gli effetti penali della condanna stessa ai fini della recidiva o della dichiarazione di abitualità e professionalità nel reato (l’applicazione dell’art.671 c.p.p. riduce ad una sola condanna più sentenze).
Il G.E. procede al riconoscimento della continuazione con il rito di cui all’art.666 c.p.p. e perciò su impulso di parte.
Provvede tuttavia d’ufficio, mediante acquisizione delle sentenze coinvolte nella richiesta, alle indagini necessarie ad accertare o escludere gli elementi che connotano il vincolo della continuazione.
La Cassazione si è pronunziata in vari modi in ordine alla necessità, per la parte, di motivare e documentare l’istanza di continuazione: l’orientamento prevalente tuttavia è nel senso che l’interessato non ha l’onere di produrre ma solo di indicare i provvedimenti, fermo restando tuttavia l’onere di allegare gli elementi da cui trarre l’unicità del disegno criminoso, in quanto il G.E. non può ricavare dalle sole sentenze che non presentino elementi palesemente indicativi di un’unica progettualità, i dati utili a costruire un disegno criminoso del tutto ignoto, nemmeno enunciato nell’istanza (Cass. n.4565/1995).
Soddisfatto il suddetto onere di allegazione degli elementi da cui trarre il disegno criminoso unitario, ad opera del richiedente, compito del G.E. è quello di verificare la credibilità intrinseca dell’asserita esistenza di un unico originario programma delinquenziale, quindi esaminare i singoli comportamenti per individuare le finalità dell’agente, infine verificare se detti comportamenti per le modalità, le circostanze e lo spirito che li caratterizza possono considerarsi come la attuazione del prospettato originario e unico programma.
Ma cosa si intende per unitario disegno criminoso che vincola i reati in continuazione?
La giurisprudenza ha chiarito che esso non va confuso con la generale inclinazione a commettere reati sotto la spinta di fatti e circostanze occasionali, più o meno collegati tra loro, ovvero di bisogni e necessità contingenti, e neanche con la tendenza a porre in essere reati della stessa indole: di conseguenza non si identifica con il disegno unitario né la medesimezza del movente né il generico proposito di commettere reati, né la scelta di una condotta di vita fondata sul delitto.
Viceversa, perché si configuri la continuazione occorre la anticipata e unitaria ideazione di più violazioni della legge penale, già presenti nella mente del reo nelle loro connotazioni fondamentali, occorre cioè che le singole violazioni costituiscano parte di un unico programma deliberato sin dall’inizio nelle sue linee essenziali, per conseguire un determinato fine, a cui si aggiungerà di volta in volta l’elemento volitivo necessario per l’attuazione del programma stesso.
In una tale prospettiva l’istante, pur non essendo gravato dall’onere della prova, è tuttavia soggetto ad un onere di allegazione anche degli elementi di fatto e delle ragioni sulle cui basi poggiare la tesi della riconducibilità dei vari reati ad un’identica deliberazione preventiva.
In questo contesto la giurisprudenza ha enucleato alcuni indici rivelatori del disegno unitario, che hanno carattere sintomatico ma non direttamente dimostrativo: la distanza cronologica tra i fatti, le modalità della condotta, la sistematicità e le abitudini programmate di vita, la tipologia dei reati, il bene protetto, l’omogeneità delle violazioni, la causale, le condizioni di tempo e luogo ed è proprio attraverso questi indici o alcuni di essi - purchè pregnanti e idonei ad essere privilegiati in direzione della affermazione o esclusione del vincolo - che il Giudice deve apprezzare non in modo congetturale ma in termini di dimostrazione logica, la sussistenza della deliberazione unitaria di fondo idonea a cementare le singole violazioni (Cass. n.43004/2008; n.35797/2006).
Va richiamata a questo punto la disposizione introdotta dalla legge n.49/2006 (art.4 vicies) che individua tipicamente come elemento astrattamente indicativo della continuazione, la commissione dei reati in relazione allo stato di tossicodipendenza: tale disposizione da un lato ha portata generale pur essendo stata introdotta nel corpo dell’art.671 c.p.p. e nel contempo va interpretata non nel senso che lo stato di tossicodipendenza è sempre e comunque decisivo ai fini del riconoscimento della unicità del disegno criminoso ma che il giudice non può omettere di valutarlo se esso è allegato o comunque emerge dagli atti (n.39704/2006).
In particolare, si è ritenuto che non possono valere da soli per la applicazione della disciplina del reato continuato lo stato di tossicodipendenza e la necessità di procurarsi con il reato il denaro necessario per acquistare la droga, trattandosi di elementi indicativi del movente ma che di per sé non provano l’originaria ideazione delle violazioni nei loro caratteri essenziali (Cass. n.40349/2006).
Uno dei temi più complessi tra quelli posti dall’art.671 c.p.p. riguarda la determinazione della pena in conseguenza del riconoscimento in executivis della continuazione.
La legge pone due limiti: il primo è quello delineato dall’art.187 disp.att. c.p.p. che impone al G.E., in sintonia con i suoi più limitati poteri e con la sua funzione di dare attuazione al dictum della sentenza, di considerare più grave il reato per il quale sia stata inflitta la pena maggiore dal Giudice della cognizione, secondo un principio (quello della sanzione applicata in concreto) diverso da quello cui si ispira l’individuazione del fatto più grave in sede di cognizione;
il secondo limite è quello indicato dall’art.671 comma 2 c.p.p., che impone al G.E. di determinare la pena in misura non superiore alla somma di quelle inflitte con le singole sentenze, disposizione che prevale per il principio di specialità su quella dell’art.81 c.p. che fissa nel triplo della pena base il limite massimo invalicabile in materia di continuazione.
All’interno di questo perimetro e con riferimento pertanto alla entità della pena per i reati satelliti le determinazioni della giurisprudenza sono state le più varie.
Una corrente più rigorosa esclude che si possa rettificare in aumento la pena stabilita per le singole fattispecie criminose e sostiene di conseguenza, invocando l’inviolabilità del giudicato, che non è possibile aumentare non solo la pena complessiva ma neppure quella per le singole fattispecie di reato.
Peraltro, la giurisprudenza più recente si è attestata nel senso di consentire al G.E. nell’operare l’aumento per ciascun reato satellite, di quantificarlo anche in misura superiore a quella originariamente stabilita per quel reato, in relazione alla gravità del fatto quale risulta dalla sentenza, purchè il risultato finale dell’operazione non dia luogo ad una pena maggiore della somma di quelle originariamente inflitte (Cass.31429/2006).
In questo contesto e in conseguenza dell’orientamento che impone di determinare gli aumenti applicando pene di specie analoga a quella base, si è ritenuto legittimo il provvedimento del G.E. che applicando la continuazione determinava la pena in anni tre di reclusione a fronte di una condanna per reati finanziari alla pena di anni uno mesi tre di reclusione e di 66 condanne per reati comuni tutte a pena pecuniaria.
Ulteriori problemi in punto di determinazione della pena in conseguenza della applicazione della continuazione in executivis sono derivati dalla legge Cirielli che modificando l’art.671 comma 2 bis c.p.p. impone in caso di condannati con la recidiva reiterata di applicare l’aumento di pena per la continuazione in misura non inferiore ad un terzo della pena base.
La nuova norma pone diversi problemi.
Quanto all’ambito temporale di applicabilità, è pacifico che essa non riguarda i fatti commessi prima della entrata in vigore della legge Cirielli, trattandosi di norma sostanziale, anche se non è chiaro cosa avvenga quando concorrano in continuazione fatti commessi prima e dopo: secondo una interpretazione l’aumento blindato si applica ai soli reati satelliti cui sa stata applicata la recidiva.
Personalmente non condivido questa opinione perché ritengo che l’aumento minimo del terzo riguardi la misura complessiva dell’aumento per la continuazione, così come il limite massimo del triplo della pena base previsto dal comma 1 dell’art.81 riguarda l’aumento complessivo, con la conseguenza che la applicazione del minimo di un terzo comporterebbe stante la unitarietà del reato continuato, la applicazione di una norma sfavorevole a fatti pregressi il che contrasta con il principio di irretroattività della norma sfavorevole.
Un altro problema attiene alla recidiva reiterata: essa deve essere applicata in tutte le sentenze in continuazione o basta che sia applicata in una di esse perché operi l’aumento “blindato”?
L’unico precedente in materia è rappresentato dall’ordinanza n. 3656/2007 della Cassazione che accogliendo il ricorso del P.G. di Milano ha affermato doversi applicare l’aumento blindato nel caso di continuazione applicata in executivis tra una sentenza principale in cui era stata applicata la recidiva reiterata e altro titolo per reato satellite, senza la recidiva.
Sulla base di questa ordinanza sembra di poter affermare che ai fini dell’art. 81 ultimo comma sia sufficiente che la recidiva reiterata sia applicata nel titolo principale, ma resta irrisolto il problema con riguardi alla ipotesi in cui la aggravante sia applicata solo con riguardo al reato satellite: probabilmente anche in questo caso opera l’aumento blindato attesa la genericità del tenore letterale dell’art. 81 ultimo comma come novellato dalla legge Cirielli.
Nella stessa ordinanza si è affermato che quando per effetto dell’aumento blindato si superi la somma delle pene inflitte con le sentenze coinvolte dalla continuazione, l’aumento per il reato meno grave deve essere tale che la pena finale non sia inferiore al cumulo materiale delle pene inflitte in sede di cognizione: in tali casi la applicazione della continuazione non comporta alcun beneficio, evidentemente, in termini di riduzione della pena.

Secondo l’art.671 comma 3 c.p.p. il G.E. può concedere la sospensione condizionale della pena e la non menzione della condanna quando ciò consegue alla applicazione della continuazione o del concorso formale.
Anche in relazione a questa norma la giurisprudenza si è espressa in termini non sempre univoci e costanti.
L’unico dato fermo è che la condizionale non può essere negata in sede esecutiva, salvi ovviamente i limiti di cui all’art.163 c.p., se è stata concessa in tutte le sentenze coinvolte dalla continuazione, e ciò sul rilievo che il reato continuato forma un unico titolo di reato e che le plurime sentenze si riducono ad una sola condanna.
Viceversa, se alcune delle condanne siano sospese e altre no, il G.E. deve valutare se estendere il beneficio in conseguenza della applicazione della continuazione, perché i nuovi limiti di pena lo consentono, o se al contrario quello concesso debba essere revocato perché ne sono venuti meno i presupposti di legge, ovvero perché il colpevole non appaia più meritevole del beneficio.
Nel caso di condanne non sospese, secondo la prevalente giurisprudenza il G.E. non può concedere la condizionale perché la mancata concessione avrebbe dovuto formare oggetto di impugnazione.
Tuttavia vi sono pronunzie che consentono la concessione della sospensione condizionale anche in caso di continuazione tra condanne non sospese e ciò in quanto la possibilità di deroga al giudicato riguarderebbe non solo la misura della pena complessiva ma anche la concessione dei benefici di cui agli artt. 163 e 175 c.p. (Cass. sez.I, ord. N.11583/2006).


Revoca per abolitio criminis
Tra gli interventi che il G.E. è chiamato a compiere sul giudicato uno dei più significativi è certamente rappresentato dalla revoca della sentenza definitiva.
Secondo l’art.673 c.p.p. il G.E. è anche competente a disporre la revoca della sentenza di condanna, adottando i provvedimenti conseguenti, in caso di abrogazione della norma incriminatrice ovvero di declaratoria di incostituzionalità della stessa.
Provvede allo stesso modo quando in relazione al reato abrogato sia stata pronunziata sentenza di proscioglimento per difetto di imputabilità o di n.d.p. per estinzione del reato.
Sono revocabili secondo l’interpretazione unanime anche le sentenze di patteggiamento per reati successivamente abrogati, senza necessità di nuovo accordo tra le parti, contrariamente a quanto avviene in caso di applicazione della continuazione tra più sentenze di applicazione pena in base al disposto dell’art.188 disp.att. c.p.p.
La abolizione deve sempre conseguire ad una norma di legge ovvero ad una sentenza della Corte Costituzionale che dichiari illegittima la norma penale incriminatrice, ma la giurisprudenza ammette che ricorra la abolitio rilevante ai fini della revoca anche quando si tratti di reato previsto da una norma penale dichiarata dalla Corte di Giustizia della Unione Europea incompatibile con una norma comunitaria (Cass. sez.7, n.21579/08).
Viceversa non si può parlare di abrogazione e pertanto non opera l’art.673 c.p.p. quando sia intervenuta una sentenza a SS.UU. della Cassazione che, in una fattispecie identica a quella già definitivamente giudicata, abbia escluso la sussistenza del reato qualificando il fatto come mero illecito amministrativo (Cass. n.27858/06: fattispecie in cui il Giudice della cognizione aveva qualificato come ricettazione l’acquisto di musicassette prive del timbro SIAE prima della sentenza Cass. SS.UU. n.47164/05 a mente della quale tale fatto integra un illecito amministrativo ex art. 16 legge n.248/2000, prevalente, per il principio di specialità stabilito dall’art.9 legge n.689/81, sulla ricettazione).
La abrogazione del reato non comporta il venire meno della natura di illecito civile dello stesso, con la conseguenza che la sentenza non deve essere revocata con riferimento alle statuizioni civili derivanti dal reato, le quali continuano ad essere fonte di obbligazioni efficaci nei confronti della parte danneggiata(Cass.sez.5, ord. 4266/05).
Egualmente, la revoca non travolge la confisca perché questa comporta un acquisto istantaneo del bene a titolo originario a favore dello Stato, che una volta avvenuto non può più essere caducato (SS.UU n.2/1998, Maiolo)
L’istituto della revoca per abolitio criminis rappresenta una novità importante all’interno del sistema perché in base all’art. 2 c.p. e all’art. 30 legge n.87/53 la abolitio criminis comportava effetti solo sulla esecuzione e sugli effetti penali della condanna, ma non incideva sul giudicato: oggi invece, a seguito della revoca, è proprio la sentenza definitiva ad essere demolita dalla revoca, tanto che si fa luogo alla cancellazione della relativa iscrizione nel casellario (art.687 c.p.p.).
Tutto ciò è possibile alla luce dei maggiori poteri attribuiti dall’attuale codice di rito al G.E. in forza della giurisdizionalizzazione di tale fase, anch’essa ormai dominata dal principio del contraddittorio tra le parti, come ricordato dalla Corte Cost. nella sentenza n.96/96.
Pronunzia, questa, accolta con grande favore dalla dottrina che vi ha letto un primo passo verso il c.d. processo penale bifasico, articolato cioè in due fasi distinte, con la devoluzione al G.E. di un potere di controllo sulla perdurante legalità e adeguatezza della sentenza di merito ancorché passata in giudicato, da esercitare nel contraddittorio tra le parti.
La sentenza in parola si segnala anche per altre importanti determinazioni in essa contenute.
La Corte ha ritenuto che in ipotesi di condanna per più imputazioni alcune delle quali soltanto siano state successivamente travolte da abrogazione, non è data la revoca parziale della sentenza, che verrà invece revocata per intero, salva la contestuale determinazione da parte del G.E., come provvedimento conseguente alla revoca, della pena per il reato che sopravvive da documentare con relativa annotazione ex art. 193 disp.att.
Nel caso di sentenza complessa o plurima, pertanto, il G.E. deve verificare quali capi di condanna della sentenza sopravvivono perché relativi a reati non abrogati e successivamente adottare i provvedimenti conseguenti, esercitando, come vedremo meglio più avanti, poteri sanzionatori analoghi a quelli del Giudice della cognizione.
Tuttavia, i poteri del G.E. nell’ambito dei provvedimenti conseguenti alla revoca si spingono oltre la mera determinazione della sanzione: mi riferisco all’orientamento giurisprudenziale ormai consolidato (v., da ultimo, Cass.n.40334/08) in base al quale il G.E. che abbia disposto la revoca di una condanna può accordare la sospensione condizionale della pena che sia stata impedita nel giudizio di cognizione dalla sentenza revocata, quando la concessione del beneficio sia giustificata alla luce degli elementi acquisiti nel momento in cui egli stesso formula il giudizio prognostico:
insomma il G.E. è investito del potere di adeguare il giudicato alla nuova situazione venutasi a creare con la revoca fino al punto di poter valutare ex novo la pericolosità del condannato sulla base degli elementi disponibili, che sarà onere dell’interessato arricchire.
Quanto alla rideterminazione della pena in conseguenza della revoca per abolitio criminis, il G.E. esercita in tale ambito poteri discrezionali ampi, anche se incontrano comunque taluni limiti derivanti dal giudicato:
così, in caso di condanna per reato continuato, se viene depenalizzato il reato satellite, ci si dovrà limitare ad espungere l’aumento relativo stabilito nella sentenza (anche in caso di patteggiamento), ferma restando la pena base ivi determinata e gli altri eventuali aumenti.
Ma se il Giudice della cognizione abbia determinato forfettariamente l’aumento di pena ex art.81 c.p., come accade spesso in attuazione di una prassi inopportuna, e successivamente uno dei reati satelliti sia stato depenalizzato spetta al G.E. determinare partitamente i singoli aumenti per i reati satelliti residui ricavando dalla sentenza gli elementi utili al fine di valutare la gravità dei vari reati e le altre circostanze rilevanti ex art.133 c.p.
Qualora invece l’abolitio riguardi il reato più grave, il G.E. è chiamato a rideterminare autonomamente la pena per il reato residuo (ex satellite) ovvero, in caso di più reati residui, e già ritenuti satelliti, dovrà individuare tra essi quello più grave, cioè - arg. ex art.187 disp.att.c.p.p. - quello per il quale il Giudice della cognizione aveva stabilito l’aumento maggiore, e detreminare autonomamente la pena base ad esso relativa e gli aumenti per gli altri reati,
in ogni caso tenendo obbligatoriamente conto, nell’esercizio di tali poteri, delle circostanze riconosciute dal giudice della cognizione e non travolte dalla abolitio,
tenendo conto altresì della continuazione già riconosciuta e rifacendosi - ai fini della quantificazione della pena base e degli aumenti - alla valutazione dei fatti operata dal Giudice della cognizione,
infine irrogando una pena complessiva non superiore a quella iniziale.
Insomma, il G.E. dovrà stabilire le nuove pene conseguenti alla revoca della sentenza individuando nel giudicato gli elementi utili a capire quale sia stata la valutazione del Giudice della cognizione, in modo da stabilire una pena che rifletta quel giudizio.
In questa operazione, inoltre, per il principio di legalità il G.E. dovrà applicare le pene della specie prevista edittalmente per i reati residui: pertanto se i relativi aumenti erano stati determinati nella sentenza sub specie di pena detentiva stante la corrispondente natura della pena base, una volta caducato il reato base, la pena per i reati residui dovrà essere determinata come pena pecuniaria, se per il nuovo reato base è applicata la sola pena pecuniaria.

Ciò detto, precisiamo che l’art.673 c.p.p. opera non soltanto quando una norma incriminatrice venga radicalmente e interamente espunta dall’ordinamento penale, ma anche quando la norma incriminatrice venga resa inapplicabile ad alcune fatti prima rientranti tra quelli da essa sanzionati come reati (abrogazione parziale), come avvenuto – per esempio – con il D.P.R. n. 171/1993 che recependo gli esiti del referendum del 1993, ha ridotto l’area della punibilità delineata dall’art.75 della legge sulla droga allora vigente, espungendo dalla stessa i fatti di detenzione di droga a fini di uso personale e realizzando rispetto ad essi una vera abolitio criminis quale quella di cui al comma 2 dell’art. 2 c.p.
In tali casi la revoca sarà certamente dichiarata se il fatto contestato è sovrapponibile a quello non costituente più reato (come nel caso in cui - utilizzando per comodità l’esempio dell’abolitio conseguente al referendum in materia di stupefacenti - dall’imputazione ovvero dalla sentenza risultasse la destinazione di tutta la droga detenuta a fini di consumo personale).
Può essere invece problematico il caso in cui unico essendo il reato venga contestata una pluralità di condotte alcune delle quali solamente depenalizzate.
In tal caso non si fa luogo a revoca, secondo l’opinione dominante, perché è inibito al G.E. scindere l’imputazione e dividere la sentenza in punti per individuare quelli revocabili: ciò in quanto la cosa giudicata si è formata sull’intero oggetto del rapporto processuale concernente l’imputazione stessa, sicchè non potrà per es. revocarsi una condanna inflitta per detenzione di droga in parte per uso personale e in parte a fini di spaccio, senza ulteriori specificazioni,
né potrà il G.E. stabilire il quantum detenuto a scopo di uso non personale e rideterminare la pena solo con riguardo a tale condotta, perché ciò comporterebbe una valutazione esclusiva del giudice della cognizione ormai coperta dal giudicato (Cass.n.2680/94).
Si innesta qui il delicato discorso dei poteri del G.E. in materia di revoca, rispetto ai quali la giurisprudenza non è unanime.
In linea generale, e riservandoci di tornare sulla questione, diciamo che è pacifico che non si possa nella fase esecutiva intaccare i risultati raggiunti in sede di merito
sicchè il G.E., allorquando provveda ex art. 673 c.p.p.,
deve verificare se vi è corrispondenza tra la fattispecie così come contestata o diversamente qualificata dal giudice della cognizione e quella abrogata,
senza poter modificare il fatto così come ricostruito in sentenza nè la qualificazione giuridica.
L’istanza di revoca, infatti, non è una forma di impugnazione e non consente la rivisitazione del giudizio di merito e la rivalutazione dei fatti,
ma solo richiede di verificare se il fatto oggetto della condanna sia inquadrabile in quello abrogato e a tale scopo occorre fare riferimento al fatto così come contestato nella imputazione ovvero diversamente qualificato dal Giudice della cognizione.
A questo fine il G.E. ha il potere e il dovere di interpretare il giudicato per ricavare da esso tutti gli elementi anche impliciti necessari per verificare se la fattispecie oggetto di condanna rientri in quella abrogata, fermo restando che egli non può ricostruire la vicenda in termini diversi né valutare e qualificare i fatti in modo difforme, stante l’intangibilità del giudicato, e deve invece dare per scontati i fatti così come accertati e qualificati in sede di cognizione, considerando a tal fine anche la sentenza di appello confermativa di quella di primo grado.

Finora nell’esaminare le questioni connesse alla revoca del giudicato abbiamo limitato il nostro orizzonte alle ipotesi di abrogazione della norma penale incriminatrice in senso stretto, che si verifica
quando, con una norma successiva, una fattispecie astratta prima prevista come reato venga espunta tout court dal novero dei fatti penalmente rilevanti, come avvenuto con la abrogazione da parte della legge n.194 del 1978 del titolo X del codice penale che prevedeva i reati contro l’integrità e sanità della stirpe negli artt.545-555 (procurato aborto, procurata impotenza alla procreazione ecc.);
ovvero quando ferma la previsione come illecito della fattispecie astratta questa venga degradata ad illecito amministrativo con la previsione di una sanzione amministrativa in luogo della penale (depenalizzazione in senso stretto);
ovvero nei casi di abrogazione parziale in senso stretto, che si verifica quando, come abbiamo sopra precisato, alcune condotte prima contemplate dalla norma incriminatrice vengono espunte dal suo ambito con un intervento testuale di tipo chirurgico:
in tutti questi casi si ha una chiara abolitio criminis con conseguente revocabilità della sentenza di condanna emessa in applicazione della norma abrogata.
I profili di maggiore problematicità però attengono alle ipotesi in cui la nuova norma, anziché cancellare la fattispecie astratta o degradarla a illecito amministrativo, ne delinei diversamente il contenuto attraverso una modifica testuale della disposizione preesistente.
Si tratta delle ipotesi in cui la norma precedente viene sostituita da un’altra, con o senza la sua formale abrogazione.
Sorge allora il problema, a volte veramente spinoso, di capire se ci si trovi davanti ad una abolitio criminis vera e propria con conseguente revocabilità del giudicato adottato sulla base della norma preesistente ovvero ad una ipotesi di continuità normativa con conseguente applicabilità dell’art. 2 comma 4 c.p. (applicazione della disciplina più favorevole al fatto da giudicare ancorché commesso sotto il vigore della norma anteriore e irrevocabilità delle sentenze emesse sulla scorta della disciplina precedente ancorché meno favorevole).
Come si risolve questo problema?
Le soluzioni in giurisprudenza non sempre sono state univoche ed infatti sono intervenute più volte le Sezioni Unite a dirimere i relativi contrasti.
Il più recente pronunciamento in materia si rinviene nella sentenza delle SS.UU. n.24468 del 2009, Rizzoli, la quale ribadendo sul punto l’orientamento già affermato dalle stesse SS.UU. nella sentenza Donatelli del 9.5.2001 ha stabilito che
per verificare se vi sia continuità normativa e non abolitio non vale la c.d. teoria della doppia punibilità in concreto (prima punibile, dopo punibile, quindi punibile), non rileva cioè che il fatto storico sia concretamente sussumibile sotto entrambe le norme succedutesi nel tempo, perché in tal modo se la norma successiva ha contenuti diversi da quella precedente, in vigore al tempo del commesso reato, si finisce col dare rilevanza penale per il passato a elementi presenti nella fattispecie concreta ma che all’epoca del fatto erano penalmente irrilevanti, e ciò in violazione dell’art. 25 comma 2 Cost. che vieta di punire un fatto concreto penalmente illecito quando fu commesso, ma alla stregua di norme allora non vigenti o non applicabili.
Emblematico il caso risolto dalla sentenza Donatelli: il reato previsto dall’art. 12 comma 2 della legge n.943 del 1986 (assunzione di stranieri senza autorizzazione al lavoro), disposizione abrogata e sostituita dall’art. 22 d.lgvo n.286 del 1998 che vieta la assunzione di extracomunitari senza permesso di soggiorno, non può essere punito alla stregua di tale norma perché si tratta di previsioni criminose diverse, la norma pregressa faceva riferimento ad atti e procedimenti amministrativi del tutto differenti da quelli previsti dalla norma successiva sicchè punire il fatto pregresso (assunzione di stranieri senza autorizzazione al lavoro) che pure contenga in concreto anche i diversi elementi della nuova fattispecie significherebbe fare retroagire il precetto successivo, dare rilevanza penale ad elementi che al tempo del commesso reato ne erano privi.
E ciò in violazione del principio di cui all’art. 25 comma 2 c.p.p. che vieta l’applicazione retroattiva delle norme penali incriminatrici non soltanto a fatti che erano leciti all’epoca in cui furono commessi, come dispone l’art. 2 comma 1 c.p., ma anche a fatti illeciti del passato strutturalmente non assimilabili alle condotte tipiche previste dalla norma successiva.
Quindi, ribadiscono le SS.UU. nel 2009, per accertare se vi è abolitio criminis, non bisogna guardare al fatto concreto, bensì esaminare quale sia stata la modifica normativa della fattispecie astratta, perché è la fattispecie tipica lo strumento di selezione dei fatti penalmente rilevanti, il mezzo attraverso cui il legislatore individua le condotte di maggiore disvalore.
Pertanto l’interprete, dicono le SS.UU., deve procedere al confronto strutturale tra le fattispecie legali astratte che si succedono nel tempo, e se da tale confronto emerge che l’intervento posteriore altera la fisionomia della fattispecie, egli riterrà essersi verificata la abolitio di quella preesistente.
Puntualizzano poi le SS.UU. del 2009 che non è decisivo e dirimente, al fine di ravvisare la continuità normativa, che le due norme tutelino gli stessi beni giuridici, ciò che vale è il solo confronto testuale tra la struttura delle due fattispecie: il fatto tipico è la somma degli elementi che incarnano il volto di una specifica figura di reato, compresi gli elementi normativi che instaurando una stretta relazione con la condotta, partecipano alla descrizione della fattispecie e rimangono imprescindibilmente inseriti nel suo nucleo essenziale.
Pertanto se uno di questi elementi viene eliminato o sostituito con altro la fattispecie cambia radicalmente e si verifica una abolitio criminis.
Muovendo da tali premesse le SS.UU. hanno ritenuto abrogata la norma che punisce la bancarotta fraudolenta dell’amministratore di società in amministrazione controllata (art.236 comma 2 n.1 l.f.) sul rilievo che abrogato l’istituto della amministrazione controllata ad opera del d.lgvo n. 6/2005 la fattispecie incriminata sarebbe stata privata di un suo elemento strutturale fondamentale e non si reggerebbe più, sarebbe stata caducata, con conseguente revoca delle sentenze di condanna già emesse e definitive.
Quindi, è la alterazione della struttura della fattispecie che determina la abolitio della figura preesistente, alterazione che si verifica quando un elemento strutturale ed essenziale venga eliminato, come nella ipotesi affrontata dalla sentenza Rizzoli,
ovvero vengano introdotti a tipizzare la condotta elementi del tutto eterogenei in modo da stravolgere il fatto prima punito e da far ritenere che ad esso non venga più riconosciuto alcun disvalore e che solo quella attualmente descritta sia la condotta incriminata (caso Donatelli).
In tutti questi casi si ha abolitio e conseguente revocabilità.

Si verte invece senza dubbio nell’area della continuità normativa, con conseguente applicazione dell’art. 2 comma 4 c.p. quando la nuova norma lasci inalterata la fattispecie astratta e modifichi solamente il trattamento sanzionatorio.

Si ha infine continuità normativa, come chiarisce la fondamentale sentenza SS.UU. Giordano del 26.3.2003, e non abolitio criminis totale, anche quando il fatto tipico costituisce reato sia in base alla normativa precedente che per quella successiva, il che avviene quando esiste un rapporto di specialità tra le norme che si succedono nel tempo, tanto nel caso in cui sia speciale la norma successiva (con conseguente restringimento dell’area di punibilità) quanto nel caso in cui sia speciale la legge preesistente, e generale la nuova, con conseguente ampliamento dell’ambito della punibilità.
La particolarità sta nel fatto che se è successiva la norma speciale si verifica anche una abrogazione parziale in quanto i fatti che erano punibili in base alla norma generale precedente sotto il cui vigore furono commessi
e che siano però privi degli elementi specializzanti richiesti da quella successiva
restano esclusi dalla più ristretta area di punibilità disegnata dalla nuova norma, con conseguente applicazione dell’art. 2 comma 2 c.p. e revocabilità della sentenza di condanna pronunziata in relazione ad essi.
Se invece il fatto astrattamente considerato rientra nell’ambito delle due disposizioni che si sono succedute nel tempo, perchè esso contiene anche i requisiti prescritti dalla legge speciale successiva, non si verifica alcun effetto abolitivo: il fatto rimane punibile secondo l’art. 2 comma 4 c.p. e la sentenza definitiva di condanna pronunziata in relazione ad esso non potrà essere revocata.
Ma come deve comportarsi il G.E. investito della richiesta di revoca delle sentenza in casi siffatti? Qual è l’ambito dei suoi poteri?
La giurisprudenza sul punto non è univoca.
In alcune pronunzie più rigide si è ribadito che il G.E. è chiamato ad un riscontro meramente ricognitivo volto a verificare se il fatto oggetto della condanna definitiva
è sussumibile nella fattispecie non costituente più reato
ovvero inquadrabile nella fattispecie delineata dalla norma successivamente intervenuta,
e si è precisato che nel compiere tale operazione il G.E. deve fare riferimento all’imputazione o al più al contenuto della sentenza, e senza poter compiere indagini volte a verificare se sussistevano nel caso concreto i presupposti da cui deriva la abolizione del reato:
è stato perciò ritenuto che non può essere revocata una sentenza di condanna per detenzione di droga dalla quale non risultava in alcun modo la destinazione ad uso personale, perché ciò avrebbe richiesto un accertamento inibito al G.E. e nemmeno chiesto in sede di cognizione dal condannato (Cass. n.2138 del 1994 e n.27300/05).
In altre sentenze tuttavia si ammette che nell’espletare la verifica di corrispondenza di cui si è detto il Giudice della esecuzione non deve limitarsi al contenuto della sentenza di cui si chiede la revoca
ma - quanto meno nelle ipotesi in cui nemmeno dalla motivazione della sentenza emergano elementi certi o rilevanti al fine di delineare il fatto e confrontarlo con il parametro normativo abolito o residuo - può fare riferimento al complesso degli atti processuali,
in modo da fare emergere il quadro probatorio acquisito e verificare i contenuti e i contorni del fatto accertato
ovviamente senza poter valutare di nuovo il fatto, perché ciò implicherebbe un nuovo giudizio di merito non consentito,
ma al solo scopo di ricavare dal quadro probatorio acquisito elementi che, irrilevanti al momento della sentenza, sono poi divenuti decisivi alla luce del diritto sopravvenuto per chiarire se l’imputazione attiene, o meno, ad un reato abrogato (revoca di patteggiamento per detenzione di carabina ad arma compressa, non considerata arma a seguito della l.526/99 se erogava proiettili con energia cinetica inferiore a 7,5 jouls).
Secondo un orientamento ancora più “spinto”, il G.E. può al fine che abbiamo indicato non limitarsi all’esame degli atti ma persino disporre accertamenti istruttori ex art.666 comma 5 c.p.p. chiedendo alle Autorità competenti informazioni e documenti utili e acquisendo prove in contraddittorio.

I temi che stiamo affrontando hanno dato luogo ad orientamenti diversi, soprattutto nell’ambito della giurisprudenza di merito, da ultimo a seguito dell’entrata in vigore del d.lgvo n. 61 del 2002 che ha riformato i reati societari e in particolare il reato di false comunicazioni sociali e quello di bancarotta fraudolenta imporpria, dando la stura a molteplici richieste di revoca delle condanne precedenti.
Si è posto il problema della revocabilità delle sentenze di condanna definitiva prima dell’entrata in vigore della nuova normativa e perciò sulla base di contestazioni formulate sulla scorta della disciplina previgente.
Abbiamo già detto che il G.E. può intervenire sul giudicato con una valutazione entro certi limiti autonoma solo in sede di applicazione della disciplina del concorso formale e del reato continuato ex art.671 c.p.p.,
mentre gli è precluso in ogni caso l’accertamento del fatto in modo difforme e quindi la modificazione dell’imputazione, così come gli è precluso, secondo l’orientamento prevalente, disporre nuovi accertamenti volti a verificare la sussistenza degli elementi richiesti dalla nuova disciplina, che spesso neppure risultano dagli atti trattandosi (si pensi al nesso causale o alle soglie di punibilità) di elementi irrilevanti nel contesto normativo previgente e perciò non messi in rilievo nell’imputazione e tanto meno resi oggetto di accertamento in fase di cognizione.
Muovendo da tali premesse vari giudici di merito (Trib.Padova ord. 9.1.2003 e Trib.Ravenna ord.15.5.2002) hanno disposto la revoca della condanna per bancarotta impropria ex art. 223 comma 2 legge fall. sostenendo da un lato che tale noma deve ritenersi abrogata dall’art. 4 D.lgvo n.61/2002 che la aveva sostituito con una diversa previsione incriminatrice e che d’altra parte non potrebbe in sede esecutiva derubricarsi la più grave imputazione oggetto della sentenza con quella più lieve di violazione dell’art. 2621 c.c. del quale pure ricorrevano gli elementi costitutivi.
Altri giudici di merito hanno invece respinto tout court l’istanza di revoca di analoghe condanne sul presupposto che il D.lgvo n. 61/2002 non ha realizzato una abolitio criminis ma una successione di leggi nel tempo con conseguente continuità normativa tra la disciplina attuale e quella previgente.
Alcuni punti fermi sono stati successivamente fissati dalla Cassazione in particolare a SS.UU. con la sentenza Giordano del 2003 che ha chiarito che non si è verificata a seguito dell’art. 1 del D.lgvo n.61/2002 la abrogazione dell’art.2621 c.c. perché è ancora previsto il reato di false comunicazioni sociali ancorché nella duplice forma di delitto e di contravvenzione e con la previsione di specifiche soglie di punibilità.
La Cassazione ha chiarito che la nuova formulazione del reato di false comunicazioni sociali e quella precedente configurano fattispecie omogenee e si differenziano tra loro solo per l’introduzione di limiti quantitativi di rilevanza penale in relazione all’entità dei dati falsamente rappresentati:
vi è quindi un rapporto di specialità per specificazione tra le due fattispecie e perciò continuità normativa sia pure parziale nel senso sopra precisato, e non abrogazione totale, tranne che per la mancata previsione tra i soggetti qualificati dei soci fondatori, dei promotori e dei direttori generali, per i quali vi è stata l’abolizione secca del reato.
Del pari, l’art. 4 del D.lgvo n.62 del 2001 non ha abrogato la bancarotta fraudolenta impropria ma la ha diversamente delineata prevedendo l’ulteriore elemento del nesso causale tra false comunicazioni e fallimento.
Si verte pertanto in entrambe le ipotesi considerate (riforma del falso in bilancio e riforma della bancarotta fraudolenta impropria) in una situazione di parziale continuità normativa, posto che le nuove fattispecie delineate dal legislatore sono speciali rispetto alle precedenti, con la conseguente applicazione dell’art. 2 comma 2 c.p. ai fatti pregressi che non contengano gli elementi specializzanti oggi richiesti e revoca delle condanne definitive pronunciate in relazione ad essi,
e per converso la persistente punibilità per i fatti pregressi sussumibili sotto la nuova fattispecie tipica.
Muovendo da questa premessa la Cassazione ha affermato che il G.E. illegittimamente rigetta una richiesta di revoca di condanna per bancarotta fraudolenta impropria e false comunicazioni sociali sul mero rilievo che non vi sarebbe stata una abolitio criminis di tali fattispecie;
egli invece deve verificare se gli elementi specializzanti introdotti dalla nuova normativa abbiano formato oggetto di accertamento giudiziale rispetto al quale l’imputato abbia avuto modo di difendersi, posto che il G.E. deve compiere una verifica rigorosamente limitata al contenuto e alla portata della sentenza di condanna, e qualora gli elementi richiesti dalla nuova norma non abbiano formato oggetto di accertamento da parte del Giudice della cognizione, solo allora deve ritenere che il fatto come accertato dal Giudice di merito rientri nella abolitio criminis e non integrando lo stesso più reato ex art. 2 comma 2 c.p. egli dovrà revocare la sentenza.
Nello stesso senso la Cassazione si è pronunziata con sentenza n. 17285/08.
Significativa è anche la pronunzia n.13404/06 in cui si sottolinea come gli elementi specializzanti previsti dalla nuova normativa debbano risultare esclusivamente da contestazione e sentenza, essendo inibito al Giudice ricavarli dall’esame e dalla valutazione dei documenti.

Tanto premesso, occorre precisare che non sempre la abrogazione di una norma comporta la non punibilità del fatto ivi previsto.
Sono questi i casi di abrogatio sine abolitione, che si verificano
a) quando il fatto tipico previsto dalla norma abrogata è sussumibile sotto la fattispecie astratta prevista da un’altra norma già esistente, norma di carattere generale il cui ambito di applicazione si espande a seguito della abrogazione della norma speciale.
b) quando contestualmente alla abrogazione della norma incriminatrice ne venga introdotta un’altra che preveda una fattispecie diversamente delineata ma nella quale siano presenti tutti gli elementi costituivi di quella precedente.
Così, è stato chiarito che la legge n.86/1990 che ha abrogato l’art.324 c.p. (interesse privato in atti d’ufficio) e modificato il testo dell’art.323 c.p. (abuso di ufficio), ulteriormente ridisegnato dalla legge n.234/1997 (che richiede gli ulteriori elementi del dolo intenzionale e della violazione di leggi o regolamenti, ed esclude rilievo al vantaggio non patrimoniale) non ha depenalizzato indistintamente tutte le condotte prima inquadrabili in tali fattispecie, ma ha realizzato appunto una abrogatio sine abolitione, nel senso che sono rimaste penalmente rilevanti tutte le condotte, prima inquadrabili nell’art.324, che presentano tutti gli elementi del nuovo abuso d’ufficio.
Diversamente ha operato la legge n.205/99 che ha abrogato l’art.341 c.p. relativo all’oltraggio a p.u.: in ordine alla revocabilità delle condanne definitive per oltraggio si è ritenuto in un primo tempo di escluderla sul rilievo che si fosse in presenza non già di una abolitio criminis ma di una ipotesi di successione di leggi nel tempo visto che la condotta già punita come oltraggio rimaneva punibile come ingiuria o minaccia aggravata ex art.61 n.10 c.p.
Altre pronunzie hanno invece statuito la revocabilità sul presupposto che non potrebbe ritenersi sussunto l’oltraggio, in virtù di una sorta di “espansione normativa”, nella ingiuria e minaccia essendo diversi i beni tutelati dalle norme in questione, sicchè la abrogazione dell’art.341 comporterebbe una vera e propria abolitio criminis.
Sono intervenute a dirimere il contrasto le Sezioni Unite che con sentenza n.20923 del 2001 hanno affermato che avendo il legislatore abrogato gli artt.341 e 344 c.p. senza formulare nuove ipotesi criminose in sostituzione o modifica di quelle preesistenti non vi è stata una successione di leggi nel tempo, ma una vera abolitio.
Tuttavia la caducazione per abrogazione delle norma citate ha determinato la “espansione normativa” dell’art. 594 e dell’art.612 c.p. in relazione all’art.61 n.10 c.p., fattispecie peraltro procedibili a querela e non più suscettibili di applicazione con riguardo ai fatti di oltraggio giudicati con sentenze definitive, e neppure per quelli ancora non giudicati definitivamente stante la inapplicabilità della norma transitoria contenuta nell’art.18 legge 205/99, che prevede un termine per la presentazione della querela, dato che essa riguarda i fatti resi procedibili a querela dalla stessa legge (mentre l’ingiuria lo era già in precedenza), e non è suscettibile di applicazione analogica.
Con la conseguenza che in sede esecutiva il G.E. non può riqualificare come ingiuria aggravata l’oltraggio sia perché manca la querela e la stessa non è proponibile, sia perché l’art.673 non consente di modificare l’imputazione, né di accertare il fatto in modo difforme da quello ritenuto nella sentenza di condanna.

Non si pongono in materia di revoca della sentenza per abolitio criminis significativi problemi di procedura: si applicano le norme di cui agli artt.666 e ss.
In particolare la revoca deve essere disposta a pena di nullità ad istanza di parte (invero l’art.676 ultimo comma c.p.p. consente al G.E. di applicare d’ufficio solo le cause di estinzione del reato e della pena) e richiede il contraddittorio, potendo decidersi de plano sulla istanza o richiesta solo in caso di inammissibilità manifesta ex art.666 comma 2 c.p.p., vale a dire per difetto delle condizioni di legge o per reiterazione di precedente richiesta rigettata, senza che siano allegati elementi nuovi a sostegno della attuale richiesta.

Roma, 18-20 gennaio 2010

Relatore: dott. Maria Alessandra Pelagatti
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